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Visualizzazione dei post da 2021

Heidegger e Michelstaedter

  ­Così come non c’è dio, neppure l’oggettività: non stanno né in cielo né in terra. Se con me finisce il mondo, sarà bene conoscere se stessi. Se la vita non è vita, se per vivere occorre morire, c’è chi al bivio sceglie la durata, il morir vivendo, e chi no. Carlo Michelstaedter a ventitré anni era già sulla via della persuasione, solcata prima di lui da non molti giganti che però parlarono forte e chiaro. Del giovane goriziano ritenuto il più bel frutto della filosofia italiana del Novecento, si torna a parlare grazie a Thomas Vasek, scrittore di un’inchiesta filosofica tesa a dimostrare la quasi identità tra il pensiero di Michelstaedter e l’Heidegger di "Essere e tempo" del 1927. Dimidiate Michelstaedter nell’inchiesta filosofica Heidegger e Michelstaedter , in libreria grazie a Mimesis, «dimidiate» ché dell’opera sua Thomas Vasek prende in considerazione solo la tesi di laurea “La persuasione e la rettorica” e benché citi una, due volte le Appendici di questa, lì

Filosofia della casa

  Come essere felici insieme agli altri, qui e adesso: sta scritto in seconda di copertina di un libro che in quarta si definisce “prodigiosamente pop”: Filosofia della casa di Emanuele Coccia promette nel sottotitolo nientemeno che Lo spazio domestico e la felicità. Subito viene da pensare a chi una casa non ce l’ha, eventualità aborrita dal filosofo che sì, arriva a vedere l’oscenità di una vita che coincida con lo spazio urbano, vita vulnerabile, esposta alla morte, sì, ma poi mette punto e comincia la sua esperienza di trenta traslochi nel mondo che lo hanno portato ad abitare case dalle più economiche alle meno. Il clochard resta muto e indietro, inizia il Gran Tour e tra camere e corridoi, cose di casa, bagni, spuntano armadi con dentro i vestiti grazie ai quali ci si porta addosso un po’ di casa quando si esce. Pagine per parlare di moda ma non c’è traccia di Leopardi, del Dialogo tra Moda e Morte, ma c’è citato Georg Simmel, colui che parlò di “stile di vita”, colui che avre

Le Parole e le Bestie

  Quando non si ha paura delle parole, quando si riescono a schivare le pietre, si deve andare fino in fondo. Potevano essere due libri davvero, lo sono se non per il titolo: Le parole e le bestie – quasi un abbecedario…anzi due è libro fatto a sei mani, due donne un uomo. Barbara Bizzarri si fa carico delle parole e Gianni Priano delle bestie, Simona Ugolotti illustra con colori e visioni. Libro rivoltoso, nel senso che a rivoltarlo da una parte s’incontra l’autrice, dall’altra l’autore: al centro si vedono le foto, le grafie e le biografie. Lei, Barbara, classe 1965, è insegnante e antropologa, raccoglie le “ultime sopravvivenze” del mondo contadino – la Bassa Mantovana -, “indagando cultura materiale, riti e il senso di un universo femminile.” Lui, Gianni, classe 1962, è insegnante, poeta, narratore, già autore con pentàgora, casa editrice cui piace pubblicare solo libri in nome dell’innamoramento all’unanimità. Libri talmente sinceri, anche nel prezzo abbordabile, da non amm

Cri le, femme!

  Il popolo ha fame, continuiamo ad avvelenarci le brioches, o volete dargli pane? E siccome vuole anche companatico, dovremmo imparare tutti a chiedere quando non si sa, e non giudicare superficialmente, a priori.  Osservando il mio prossimo, a priori dicevo “mmh” e non esprimevo goduria, ve l’assicuro. Col senno di poi, meglio una cento mille battaglie perse che una vita da ignavi del posto sicuro. Una vita della rispettabilità. Del conformismo, problema mentale di tanti che aspirano a una lotta schifosa come sentono, probabilmente.  La mia inadeguata affermazione d’individualità è casuale, dovuta a ignoranza, ma non delle vostre regole da maschi alpha – privativo, aggiungo io -, quelle per trasgredirle bisogna conoscerle. No, l’ignoranza della tecnologia da parte mia: stanno meritando l’oblio alcune mie creature teatrali nate dalla testa e non, credevo che metterle nel cassetto di faccialibro fosse un posto sicuro per proteggerle dalla damnatio memoriae, le ho davvero caricate solo

La femminilità, una trappola

Cosa può la letteratura? A chiederselo, Simone De Beauvoir, ora e ancora in libreria grazie all’edizione di 11 – un’ambassi -, scritti inediti dal 1927 al 1983 pubblicati da L’Orma che li affida a tante traduttrici, sotto il titolo La femminilità, una trappola , ma in inglese suona altrimenti Femininity, the trap . Per quanto la riguarda, donna libera, la filosofa fu pronta a combattere sui due fronti che le mise di fronte il caso: contro gli uomini riottosi a una relazione alla pari, contro le altre donne, supinamente acquiescenti al mito dell’“eterno femminino”. Mito inventato dagli uomini con il plauso delle donne che intruppano contro se stesse per prima cosa. Quando studiava alla Sorbona, Simone rimase sconvolta a sentire le ragazze dire con umiltà: “E’ un libro da uomini. Noi non riusciremo mai a venirne a capo”. Le prime ad esserne convinte, d’essere inferiori, erano proprio le donne, tanto da inverare la loro inferiorità. Come dire che all’inferno ci finisce chi ci crede. “La d

Il sapere mitico

  Ototototoi popoi da : no, non sono versi da balalaika, non è russo. E’ greco antico assai, di più, è lingua d’oracolo, di matrice divina. Una disperata invocazione ad Apollo da parte di Cassandra, sua sacerdotessa, una volta giunta con Agamennone ad Argo. Apollo, Apollo! Invoca la figlia di Priamo mentre muove verso la reggia intonando un lungo grido inarticolato. Un parlare oscuro e fra lo stupore di tutti profetizza quanto sta per accadere, la sua morte e quella del re per mano di Clitennestra, comprese le disgrazie che colpiranno la discendenza degli Atridi. Fin lì era restata muta, sorda agli inviti a scendere quale schiava dal carro, da far pensare che non fosse in grado di comprendere la lingua greca. “A meno che – ipotizza Clitennestra feroce per il sacrificio di sua figlia Ifigenia -, non parli un’incomprensibile lingua barbara…” Già, oi barbaroi, coloro che fanno bar – bar, parlano cioè in modo confuso, balbettando: così nell’Orestea Eschilo rammentava il mito di Filomela,

Senza

  Compenetrarsi è il sogno di tutti gli amanti, non capita a tutti però, almeno non così intensamente come a La e Pa, sposi per quarantatré anni, insieme finché morte non venne a portarsi via Pa, otto anni or sono. Senza di Lanfranco Caminiti è dolore che parla per dirla con Soren Kierkegaard, un libro che nella copertina bella bella – una finestra che si apre su un mare piatto -, porta scritto “romanzo”, ma aprirlo a qualsiasi pagina reca in dono al lettore verità distillate. Dolore purificato non addolora, non muove a compassione, libera tenerezza semmai, addolcisce i cuori, anche quelli ridotti a un “grosso bubù” come pensa Clov di Beckett. Per riuscire in questa immane impresa – spesso i cuori dei lettori non sono più vivi -, l’autore non ricorre a nessuno stratagemma, non c’è trucco, riesce con forza altrettanto immane a essere sincero, di una sincerità a fin di bene se la vita lo è. Il che non esclude beninteso la finzione, ciò nonostante la supera, va oltre. Scende negl

La scomparsa dei riti

  Lo dicono apocalittico, a me pare apodittico anche perché c’è poco da dimostrare quando si prende di petto l’evidenza, com’è evidente che oggi domina una comunicazione senza comunità, laddove i riti creano una comunità senza comunicazione. Coreano di Seul, Byung Chul Han insegna filosofia all’università di Berlino e scrive libri in cui afferma, senza téma di essere smentito o frainteso. La scomparsa dei riti – Una topologia del presente , in libreria da febbraio grazie a Nottetempo nella traduzione di Simone Aglan-Buttazzi, è libro che avrei voluto leggere già da un po’, dal 1989, dacché tutto il mondo è mercato. A riprova dell’assenza di comunità, basta avvertire la millantata “community” quale imbastardimento ciarliero o se preferite variante merceologica e consumistica della comunità; mentre i riti accadono immersi nel silenzio. Pensate al teatro, il pubblico assiste zitto zitto a un rito in cui l’attore alterna parole a pause e silenzi: non la stessa cosa, c’è differenza e maga

Lusso Comune

  C’è da chiedere a noi stessi un cambiamento radicale, procedere altrimenti da come si è andati avanti da settant’anni in qua (ma sarebbe più sano risalire ai dì del feudalesimo). Pena, l’estinzione dell’umanità. Si può ben dire che il momento è tragico: c’è un prima rimpianto eppure foriero di sventura, un adesso orribile che minaccia di non passare se non riusciremo a fissare il nostro errore – la follia del capitale – e acconsentire a salvarci cambiando radicalmente. Visione ottimista – fiducia nella capacità umana di cambiare-, che cuce la bocca a chi vorrebbe rassegnarsi in un laconico ormai. Guardare al futuro rivolgendo lo sguardo ai più piccoli, ai bambini che questa pandemia ci ha fatto dimenticare insieme ai ragazzi, creature da considerare bene comune. Lusso comune – l’immaginario politico nella comune di Parigi è libro che risponde alle sterili polemiche da Espresso sull’inadeguatezza dei simboli scelti o toccati alla sinistra. Risponde parlando d’altro dalle mitragliat

Orizzontale e verticale le figure del potere

  Soffro di vertigini, temo le alture. Sto a mio agio con i piedi per terra, a livello del mare. Forse anche per questo alla verticalità preferisco di gran lunga l’orizzontalità. In che senso? Giusto quello dell’ultima fatica di Stefano Boni per la preziosa elèuthera Orizzontale e verticale le figure del potere . Un libro necessario, tanto da suscitare la meraviglia dell’autore nel constatare che non è stato scritto prima. In copertina una stampa del 1700 circa, un’acquaforte di Giuseppe Maria Mitelli la “Machina del mondo – Ognun cerca di star sopra il compagno”. E’ una piramide umana con alla base il Villano e il Fachino, schiacciati dal peso di più illustri personaggi che culminano nella figura del re accanto al quale implacabile e orizzontale c’è la falce della morte che tutti pareggia. E’ una rappresentazione dell’insofferenza popolare al sistema gerarchico, popolo che all’epoca sperava in nient’altro che nella parificazione del trapasso. Invece furono rivoluzioni, la francese

Il cannocchiale del tenente Dumont

Avercela una penna capace di disegnare con le parole, sarebbe da farsi qualche bracciata a nuoto, come consigliava Giuseppe Pontiggia. Poi, scrivere. E magari dipingendo, con le parole arrivare in alto, a guardare da lassù. Avercela una penna così, con un niente spalanchi vedute mozzafiato e un attimo dopo sei nell’erba, a indovinare gli insetti dal rumore che fanno. Con una penna così, pochi cenni – un tripudio di rondini - e sei dentro fino al collo in una cronaca di diserzione, storia incredibile ma verisimile. Quanto al Dumont del titolo, è la fonte del racconto, lui è quello delle domande, disegna fin da ragazzino, suo padre lo esortava a sapere cosa pensasse guardandolo nelle pupille. Dal 6 maggio grazie a L’Orma in libreria, Il cannocchiale del tenente Dumont di Marino Magliani è romanzo con al centro un tenentino dell’esercito napoleonico in Egitto, è l’estate del 1799 e dall’Africa sta per essere rimpatriato con il capitano Lemoine e il soldato basco Urruti, insieme consuma

Non doveva andare così

Non doveva andare così. A quarant’anni, mastectomia radicale destra, un’amazzone praticamente. Mai voluta protesi. Dieci anni dopo, sei anni fa, una diagnosi di metastasi ossee agli acetaboli. Una diagnosi senza biopsia, tanto invasiva sarebbe stata. Sei anni di bombardamenti al mio corpo, a me: radioterapia, chemioterapia, ormonoterapia. Nel tempo l’oncologo di sempre andò in pensione, chi gli succedette non mise mai in discussione la sua diagnosi, neppure quando mi trasferì per poco in un altro day hospital. Sei anni di cure devastanti e intanto non morivo ma non camminavo quasi più. Nel tempo con l’oncologo di sempre divenimmo amici e visto come non camminavo e non morivo, un giorno venne a casa a dirmi che no, non sarei morta di lì a poco. La verità vera e probabile era un’errata diagnosi a monte, in poche parole, non si trattava di metastasi ossee bensì di coxoartrosi. Lì per lì non ho ben realizzato, mi sentivo giorno dopo giorno sempre più Euridice rilkiana. Lastre

Achille Odisseo

  La mia versione dell’Iliade è quella di Rosa Calzecchi Onesti con testo a fronte, che uscì nel 1950 per Einaudi tra “I Millenni”. Della stessa traduttrice, l’Odissea. Nascosta da qualche parte, “L’Ilide ou le poème de la force”, lettura weiliana del poema alle origini della letteratura occidentale, lettura che insegna la forza quale devastatrice di vinti e vincitori. Ora questi libri affollano il tavolo dove leggo e scrivo, chiamati in causa da Achille Odisseo. La ferocia e l’inganno di Matteo Nucci uscito per Einaudi nella collana Sile Libero VS che apre ai dualismi (ghiottissimo appare l’agone “Atene Sparta. Democrazia e totalitarismo” curato da Eva Cantarella). Il libro, duecento pagine, si divide in quattro parti dove i due eroi omerici non si lasciano mai, avvinti l’uno all’altro ma opposti – Achille piè veloce e Odisseo re astuto. Il primo, biondo e bello da far tremare i polsi è il presente morso a sangue; il secondo, irsuto e muscoloso, è il futuro sempre oltre, mai qui.

Ancora bigotti

  Tra le lotte, la mia preferita è quella tra i sessi: ne hai combinate più tu, tuonava sessuofoba maman, che Carlo in Francia! Ancora bigotti: non lo manda a dire, Edoardo Lombardi Vallauri grazie a Einaudi, rivolgendosi nel sottotitolo agli italiani a tu per tu con la morale sessuale. Vi ricordate quella polifonia di cineasti – Monicelli, De Sica, Fellini e Visconti – insieme a dirigere altrettanti episodi per un film del 1962, Boccaccio ’70 ? Peppino De Filippo era per Fellini il dottor Antonio, le cui tentazioni – Anita Ekberg succinta in un cartellone pubblicitario che invitava a bere più latte –, erano pari alla sua ipocrisia. Un tipo, il moralista, cioè chi dice: tutti devono fare come me, non del tutto scomparso e di cui si potrebbe dire investito anche l’autore. Già, da una morale all’altra. Dall’orrido Catechismo di Woytilaccio – così come nel 1983 Benigni appellò il Papa che contribuì a far di tutto il mondo mercato –, catechismo che condanna onanismo, adulterio, pornogr

Due vite

  A sentir lui, la scrittura è un mezzo buono per evocare i morti. Consiglia a chi ha nostalgia di qualcuno, di fare lo stesso: scrivete di chi non c’è, e lui o lei sarà con voi. A me è capitato, ma parliamo di lui: Emanuele Trevi che a 56 anni corre per il Premio Strega con “Due vite” edito da Neri Pozza. Dopo Einaudi, Laterza, Rizzoli, Ponte alle Grazie, ora con la casa editrice veneziana tenta di dare una seconda vita al suo libro che racconta due amici scrittori scomparsi presto: Pia Pera e Rocco Carbone. Vi consiglio di leggere queste centoventisette pagine concedendovi un pomeriggio pieno, ne uscirete con la sensazione piacevole che sì, l’autore c’è ma scompare in un abile togliersi di mezzo, da autore ad amico, testimone oculare di tanti fatti divenuti aneddoti, probabilmente. Due vite forse tre, anzi due vite e una voce che dice la sua, deduce, ricorda, sfoglia fotografie, vecchi diari fino a sostituirsi all’amico Rocco nel portare a termine un romanzo uscito postumo. Quasi Ott

La follia di Holderlin

Occhi dolcissimi, limpidi e profondi tanto da essere fermi: fronte naso bocca, morbidi e sensuali non senza il pudore di chi è innocente. Aveva ventidue anni Friedrich Hölderlin quando Franz Carl Hiemer lo ritrasse, era il 1792. Allora, il poeta di Iperione e di Empedocle e tante altre opere altrettanto meravigliose, era considerato per i suoi talenti, uno dei più fulgidi ingegni di Germania, d’Europa. Talenti onorati da uno studio continuo dal traduttore di Sofocle che teorizzò come chi traduca debba farsi calco e clorofilla. Hölderlin, che sintetizzò la tragedia facendola “=0”. Uomo così sensibile che finì o si fece pazzo, questo il dilemma su cui fa luce Giorgio Agamben con “La follia di Hölderlin”, 241 pagine di “Cronaca di una vita abitante 1806-1843”. Libro con una cronaca doppia, almeno fino al 1809 – cronaca del mondo, da cui spiccano Napoleone e Goethe (quest’ultimo, agli occhi chiari del poeta svevo di Nurtingen, gli aveva impedito l’ingresso da docente all’Accademia e pertan