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Visualizzazione dei post da luglio, 2021

Cri le, femme!

  Il popolo ha fame, continuiamo ad avvelenarci le brioches, o volete dargli pane? E siccome vuole anche companatico, dovremmo imparare tutti a chiedere quando non si sa, e non giudicare superficialmente, a priori.  Osservando il mio prossimo, a priori dicevo “mmh” e non esprimevo goduria, ve l’assicuro. Col senno di poi, meglio una cento mille battaglie perse che una vita da ignavi del posto sicuro. Una vita della rispettabilità. Del conformismo, problema mentale di tanti che aspirano a una lotta schifosa come sentono, probabilmente.  La mia inadeguata affermazione d’individualità è casuale, dovuta a ignoranza, ma non delle vostre regole da maschi alpha – privativo, aggiungo io -, quelle per trasgredirle bisogna conoscerle. No, l’ignoranza della tecnologia da parte mia: stanno meritando l’oblio alcune mie creature teatrali nate dalla testa e non, credevo che metterle nel cassetto di faccialibro fosse un posto sicuro per proteggerle dalla damnatio memoriae, le ho davvero caricate solo

La femminilità, una trappola

Cosa può la letteratura? A chiederselo, Simone De Beauvoir, ora e ancora in libreria grazie all’edizione di 11 – un’ambassi -, scritti inediti dal 1927 al 1983 pubblicati da L’Orma che li affida a tante traduttrici, sotto il titolo La femminilità, una trappola , ma in inglese suona altrimenti Femininity, the trap . Per quanto la riguarda, donna libera, la filosofa fu pronta a combattere sui due fronti che le mise di fronte il caso: contro gli uomini riottosi a una relazione alla pari, contro le altre donne, supinamente acquiescenti al mito dell’“eterno femminino”. Mito inventato dagli uomini con il plauso delle donne che intruppano contro se stesse per prima cosa. Quando studiava alla Sorbona, Simone rimase sconvolta a sentire le ragazze dire con umiltà: “E’ un libro da uomini. Noi non riusciremo mai a venirne a capo”. Le prime ad esserne convinte, d’essere inferiori, erano proprio le donne, tanto da inverare la loro inferiorità. Come dire che all’inferno ci finisce chi ci crede. “La d

Il sapere mitico

  Ototototoi popoi da : no, non sono versi da balalaika, non è russo. E’ greco antico assai, di più, è lingua d’oracolo, di matrice divina. Una disperata invocazione ad Apollo da parte di Cassandra, sua sacerdotessa, una volta giunta con Agamennone ad Argo. Apollo, Apollo! Invoca la figlia di Priamo mentre muove verso la reggia intonando un lungo grido inarticolato. Un parlare oscuro e fra lo stupore di tutti profetizza quanto sta per accadere, la sua morte e quella del re per mano di Clitennestra, comprese le disgrazie che colpiranno la discendenza degli Atridi. Fin lì era restata muta, sorda agli inviti a scendere quale schiava dal carro, da far pensare che non fosse in grado di comprendere la lingua greca. “A meno che – ipotizza Clitennestra feroce per il sacrificio di sua figlia Ifigenia -, non parli un’incomprensibile lingua barbara…” Già, oi barbaroi, coloro che fanno bar – bar, parlano cioè in modo confuso, balbettando: così nell’Orestea Eschilo rammentava il mito di Filomela,

Senza

  Compenetrarsi è il sogno di tutti gli amanti, non capita a tutti però, almeno non così intensamente come a La e Pa, sposi per quarantatré anni, insieme finché morte non venne a portarsi via Pa, otto anni or sono. Senza di Lanfranco Caminiti è dolore che parla per dirla con Soren Kierkegaard, un libro che nella copertina bella bella – una finestra che si apre su un mare piatto -, porta scritto “romanzo”, ma aprirlo a qualsiasi pagina reca in dono al lettore verità distillate. Dolore purificato non addolora, non muove a compassione, libera tenerezza semmai, addolcisce i cuori, anche quelli ridotti a un “grosso bubù” come pensa Clov di Beckett. Per riuscire in questa immane impresa – spesso i cuori dei lettori non sono più vivi -, l’autore non ricorre a nessuno stratagemma, non c’è trucco, riesce con forza altrettanto immane a essere sincero, di una sincerità a fin di bene se la vita lo è. Il che non esclude beninteso la finzione, ciò nonostante la supera, va oltre. Scende negl

La scomparsa dei riti

  Lo dicono apocalittico, a me pare apodittico anche perché c’è poco da dimostrare quando si prende di petto l’evidenza, com’è evidente che oggi domina una comunicazione senza comunità, laddove i riti creano una comunità senza comunicazione. Coreano di Seul, Byung Chul Han insegna filosofia all’università di Berlino e scrive libri in cui afferma, senza téma di essere smentito o frainteso. La scomparsa dei riti – Una topologia del presente , in libreria da febbraio grazie a Nottetempo nella traduzione di Simone Aglan-Buttazzi, è libro che avrei voluto leggere già da un po’, dal 1989, dacché tutto il mondo è mercato. A riprova dell’assenza di comunità, basta avvertire la millantata “community” quale imbastardimento ciarliero o se preferite variante merceologica e consumistica della comunità; mentre i riti accadono immersi nel silenzio. Pensate al teatro, il pubblico assiste zitto zitto a un rito in cui l’attore alterna parole a pause e silenzi: non la stessa cosa, c’è differenza e maga

Lusso Comune

  C’è da chiedere a noi stessi un cambiamento radicale, procedere altrimenti da come si è andati avanti da settant’anni in qua (ma sarebbe più sano risalire ai dì del feudalesimo). Pena, l’estinzione dell’umanità. Si può ben dire che il momento è tragico: c’è un prima rimpianto eppure foriero di sventura, un adesso orribile che minaccia di non passare se non riusciremo a fissare il nostro errore – la follia del capitale – e acconsentire a salvarci cambiando radicalmente. Visione ottimista – fiducia nella capacità umana di cambiare-, che cuce la bocca a chi vorrebbe rassegnarsi in un laconico ormai. Guardare al futuro rivolgendo lo sguardo ai più piccoli, ai bambini che questa pandemia ci ha fatto dimenticare insieme ai ragazzi, creature da considerare bene comune. Lusso comune – l’immaginario politico nella comune di Parigi è libro che risponde alle sterili polemiche da Espresso sull’inadeguatezza dei simboli scelti o toccati alla sinistra. Risponde parlando d’altro dalle mitragliat