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Le Parole e le Bestie


 

Quando non si ha paura delle parole, quando si riescono a schivare le pietre, si deve andare fino in fondo. Potevano essere due libri davvero, lo sono se non per il titolo: Le parole e le bestie – quasi un abbecedario…anzi due è libro fatto a sei mani, due donne un uomo. Barbara Bizzarri si fa carico delle parole e Gianni Priano delle bestie, Simona Ugolotti illustra con colori e visioni.

Libro rivoltoso, nel senso che a rivoltarlo da una parte s’incontra l’autrice, dall’altra l’autore: al centro si vedono le foto, le grafie e le biografie.

Lei, Barbara, classe 1965, è insegnante e antropologa, raccoglie le “ultime sopravvivenze” del mondo contadino – la Bassa Mantovana -, “indagando cultura materiale, riti e il senso di un universo femminile.”

Lui, Gianni, classe 1962, è insegnante, poeta, narratore, già autore con pentàgora, casa editrice cui piace pubblicare solo libri in nome dell’innamoramento all’unanimità. Libri talmente sinceri, anche nel prezzo abbordabile, da non ammettere sconti. Le parole dell’autrice – dalla a di anello/anelo alla zeta di zero/azzerarsi – parlano a un tu che sa di mestiere di vivere, piene come l’estate della voce Stagioni e libagioni (“Estate, invece, sarà nel momento in cui andrai nell’orto a raccogliere ceste di pomidori rossi e a ficcartene subito qualcuno in bocca, prima che il sole sia svaporato via”, per esempio. E di ortaggio in ortaggio, giungere dionisiaca “a carpire grappoli d’uva d’oro, senza più paura di mordere i frutti della vita. Sarà quando senza pensieri sarai capace di prendere i frutti e goderli, quando tu nell’orto sarai il frutto desiderato del tuo contadino”). All’ultima voce, lo zero, si nega ai Greci una responsabilità bella da indossare, quella di essersi proibiti l’algebra, fedeli a matematica e geometria.

Lui, Gianni, governa le bestie, dalla a di acciuga/asino alla zeta di zecca e non fa sconti neanche lui: i gatti di campagna, ribelli, ladri e mordi fuggi, non quelli di città con la sindrome di Stoccolma, sono quelli che ne vengono fuori meglio. Alla lumaca è riservata la crudezza e un certo sadismo non estranei a Genova. C’è anche la pantera cacciatrice solitaria, una volta sazia dorme per tre giorni e al risveglio ruggisce. Capita anche agli uomini, prendete Marx e il resoconto della spia prussiana, non aveva un buon rapporto sonno veglia, era capace di lavorare inesauribile per giorni e poi starsene stravaccato, lo sguardo perso nel vuoto. Ma questa è un’altra storia da quella di zia Maria che citava alla meno peggio Martin Luther King: “Abbiamo imparato a volare come i pesci, a nuotare come i suelli, ma non abbiamo imparato il mestiere di diventare fratelli”, ché in fondo alla voce Sugarello e Tacchino vien fuori che all’autore interessa la storia raccontata più che insegnata. Com’è per l’ingegno dell’Elefante, nel racconto di un nonno che valutava l’abilità del pachiderma a inanellarsi la proboscide, come un’intera “bigoncia”.

Belle e felici le illustrazioni di Simona Ugolotti, le lettere delle parole, ma soprattutto l’Apocalisse simpatica a cui l’uomo non sopravviverà, solo animali e l’unica invenzione buona, la musica e i suoi strumenti.

Un’ultima parola su pentàgora dai tanti meriti, anche quello di esortare alla lettura ad alta voce, nel “tempo smemorato della lettura frettolosa”, perché “con la voce si possa tornare a dare alla parola un corpo che suona.” Una voce, anzi due voci, a ricordarci che il racconto a farlo, è l’orecchio.

 


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