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La scomparsa dei riti


 

Lo dicono apocalittico, a me pare apodittico anche perché c’è poco da dimostrare quando si prende di petto l’evidenza, com’è evidente che oggi domina una comunicazione senza comunità, laddove i riti creano una comunità senza comunicazione. Coreano di Seul, Byung Chul Han insegna filosofia all’università di Berlino e scrive libri in cui afferma, senza téma di essere smentito o frainteso.

La scomparsa dei riti – Una topologia del presente, in libreria da febbraio grazie a Nottetempo nella traduzione di Simone Aglan-Buttazzi, è libro che avrei voluto leggere già da un po’, dal 1989, dacché tutto il mondo è mercato. A riprova dell’assenza di comunità, basta avvertire la millantata “community” quale imbastardimento ciarliero o se preferite variante merceologica e consumistica della comunità; mentre i riti accadono immersi nel silenzio. Pensate al teatro, il pubblico assiste zitto zitto a un rito in cui l’attore alterna parole a pause e silenzi: non la stessa cosa, c’è differenza e magari un giorno ne parlerò.

Esclusa l’Avvertenza di non piangere sulla fine dei riti, semmai di escogitare strategie di sopravvivenza come fare della vita un uso giocoso, il filosofo critico del neoliberismo dipana il discorso in dieci capitoli. I primi due recano la parola coazione, rispettivamente a produrre e all’autenticità, quindi violenza esercitata dal capitalismo che tutto trasforma in merce da consumare. “Il regime neoliberista forza la comunicazione senza comunità isolando ciascuno e facendolo diventare produttore di se stesso… Oggi “ci produciamo” dappertutto e in modo compulsivo sui social network… Più informazioni, più comunicazione promettono più produzione, così la coazione a produrre si esprime come coazione a comunicare.” Il capitalismo non ama il silenzio. Chiaro no? Se poco poco volessimo davvero recuperare l’energia unificante della comunità, dovremmo smetterla col baccano della comunicazione che non fa che accelerare processi di scollamento dal mondo che pian piano scompare a vantaggio di una smodata autoreferenzialità. La performance viene indebitamente sottratta al teatro e diffusa come erba infestante nel quotidiano di ciascuno: “La società dell’autenticità è una società della performance. Ciascuno esibisce se stesso.” Un’esibizione che è messa a nudo di ciò che è intimo e perciò pornografica. Nell’esibizione narcisistica ciascuno ha a che fare con la propria psicologia e basta, l’homus psychologicus, prigioniero della propria interiorità, gira a vuoto, su se stesso, e spesso cade in depressione.

Ché non è più la Storia o Dio o i propri simili ad avere un’importanza essenziale capace di restituire un’identità non limitata al sé: il culto dell’autenticità è ostile alla società, la atomizza.

La deritualizzazione coincide con la scomparsa di magia e mistero, spazza via il sacro ambito del gioco: la cultura viene profanata e con lei l’arte, il significato profano prende il posto del significante magico, così la vita si appiattisce a mera sopravvivenza. Diventa additiva, incapace di conclusione: “Il regime neoliberista abolisce le forme di chiusura e conclusione per aumentare la produttività.”

Byung Chul Han individua nel noi una forma di chiusura quale agire collettivo, oggi ridotto a “Ego imprenditori di se stessi che si sfruttano da soli.”

Non è ingenuo, il filosofo coreano, e sa i pericoli insiti nel nazionalismo che si va risvegliando: l’esclusione dell’Altro, dell’Estraneo. Ma anche se l’essere umano è una creatura locale ché il luogo permette l’abitare, non è però necessariamente campanilista e fondamentalista, mentre è decisamente distruttiva la de-localizzazione del mondo in un’ottica globale perché livella ogni differenza e propina solo un inferno dell’Eguale.

All’aut-aut, cioè né né, oggi segue la congiunzione infinita – l’et periodico - che scardina l’essere quale verbo del luogo. Perdiamo il tempo proprio con la scomparsa dei riti che segnano le fasi della vita – fanciullezza, giovinezza, maturità, vecchiaia e morte -, passaggi, forme di chiusura senza le quali scivoliamo attraverso, rimanendo consumatori infantili che non diventano mai adulti.


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