Così come non c’è dio, neppure
l’oggettività: non stanno né in cielo né in terra. Se con me finisce il mondo,
sarà bene conoscere se stessi.
Se la vita non è vita, se per
vivere occorre morire, c’è chi al bivio sceglie la durata, il morir vivendo, e
chi no. Carlo Michelstaedter a ventitré anni era già sulla via della
persuasione, solcata prima di lui da non molti giganti che però parlarono forte
e chiaro.
Del giovane goriziano ritenuto
il più bel frutto della filosofia italiana del Novecento, si torna a parlare
grazie a Thomas Vasek, scrittore di un’inchiesta filosofica tesa a dimostrare
la quasi identità tra il pensiero di Michelstaedter e l’Heidegger di "Essere e
tempo" del 1927.
Dimidiate Michelstaedter
nell’inchiesta filosofica Heidegger e Michelstaedter, in libreria grazie a Mimesis, «dimidiate» ché
dell’opera sua Thomas Vasek prende in considerazione solo la tesi di laurea “La
persuasione e la rettorica” e benché citi una, due volte le Appendici di
questa, lì non affonda, lì dove c’è tutto l’antisistema desiderabile.
Lì si svelano gli altarini del
pensiero occidentale, niente popò di meno che. Ben più corpose della tesi di
laurea mai discussa, le Appendici sono depositarie delle profondità del
pensiero del giovane goriziano, che nel 1910, era ottobre, si sparò un colpo di
rivoltella.
In Primavera ne aveva terminato
la stesura, e lì mosse “con le parole guerra alle parole”: con le stesse parole
di Platone muove guerra a Platone, e stesso trattamento riserva al discepolo
Aristotele. Conviene leggerle con un vocabolario di greco o con i testi a
fronte, ché il giovane “artista”, come lo definisce Vasek, che nulla ha attinto
da questa non scienza ma verità, cita a memoria. No, nulla ha attinto Vasek
altrimenti non negherebbe a Michelstaedter d’esser così persuaso da fare quel
che dice: assumere su sé il dolore di una vita non vita - nel “Canto delle
Crisalidi”, poesia presa a esempio di un andamento schizofrenico (sic!), si
dice: la vita non è vita se la morte a vivere non ci aita - , assumere su sé il
dolore degli altri fino a farsi esempio, fino a far di se stesso fiamma e
bruciare nell’ultimo presente.
Vasek per tutta l’inchiesta dà
credito a Michelstaedter come termine di paragone con Heidegger, ma quando alla
fine dice la sua opinione personale, scarta come cavallo riottoso all’ostacolo
e nega la verità, cioè la cosa più evidente, che se si può morir d’amore, si
muore altrettanto di quel che si pensa se questo coincide con tutto il proprio
essere.
Essere non dire di essere, parlare
non dire di dire, vivere non teorizzare ché siamo noi il sapore, ciascuno il
suo, fuori della corrente, fuori della memoria, dei luoghi comuni in una parola
della rettorica. Quando nasce questo male di tutti i mali, impiastro al dolore
umano che ormai agli uomini piuttosto di sottrarglielo converrebbe strappargli
la pelle? Nelle Appendici, appunto, l’origine infausta di tutti i mali viene
svelata e con lei la fine del postulato dell’onestà filosofica (pag. 191).
Con le parole delle care
Appendici, così ostiche e forse neanche tradotte in tedesco il ragazzo di
Gorizia ha lasciato, dopo un pugno in faccia con la sua tesi, un pugno di
dialoghi nel cuore, un pugno di disegni negli occhi, alla fine un pugno nello
stomaco a non rialzarsi più e alla fine dire: Basta con la sapienza, lasciatemi
vivere!
Dopo tanta guerra, non più
credere ma essere quel che si è, e se ti capita la persuasione di fare l’ultimo
presente, la morte non appare più, è liberatoria. Carlo Michelstaedter merita
l’identità tra il dire e il fare che eticamente è il più alto valore, almeno
questo, il valore gli sia riconosciuto.
Ma siamo in Italia, l’Occidente
più appetibile, non il Giappone dove per amor di più vita tutto il popolo
assistette al suicidio di Mishima che fece Harakiri teletrasmesso.
Vasek crede fin dove vede, non
crede nel “coraggio dell’impossibile” e subito vien da pensare a una che ci
credeva eccome, Simone Weil, e lo traduceva, meraviglia, nella pratica di fare
tutto il possibile. Gli autori che arrivano a tanto sono ai miei occhi da
preferire. Avesse vissuto tanto da conoscerla, Michelstaedter la “vergine rossa”
l’avrebbe incontrata sulla via della Persuasione, via di quando s’intravede una
luce, la propria, ma per vederla occorre il buio, azzerare le luminarie del
mondo, fare il deserto e ricreare il mondo da sé, stavolta persuaso che per
vivere occorra morire: questo il peso da sopportare fino all’ultimo presente.
Michelstaedter è autore da preferire,
anche lui s’avvia a colmare di senso i luoghi comuni, sceglie per sé persuaso
l’imperativo, l’unico modo non modo, ossia il parlar che non rimanda ma è
azione.
Il possesso di sé mina il non
essere della vita finita, ché per conoscersi davvero, per possedersi, c’è da
inverare la fine. Se nel vivere moriamo, nella vita piena, nel pieno possesso,
non c’è da durare ancora, impossibile in quanto indesiderabile.
Chi tutto possiede in sé nega la
corrente, via via sempre più contro, fondato sulla certezza del morire, vive
illuminandosi.
Cristo è un esempio, per la sua
esperienza, purtroppo frainteso tanto da fondarci una chiesa. Come fraintesi
furono Parmenide, Eraclito, Empedocle, il buon Socrate, fraintesa
l’Ecclesiaste. Frainteso il rigorosissimo Carlo Michelstaedter, nato a Gorizia
nel 1887 e inascoltati gli altri giganti sulla via della persuasione, gli amati
Eschilo, Simonide, Petrarca, Leopardi e Ibsen. Unica via da cui si parla
interi, dove il filosofo ha ragion d’essere come chiunque comunichi persuasione
e non per averne assunto il ruolo.
Muove guerra dall’interno,
Michelstaedter: per far fuori la retorica, non c’è che la dialettica, il
permanere di Socrate che chiedeva tì estì, non altro o astrazioni, ma proprio
tì estì.
Socrate chiedeva a ciascuno di
essere autàrkes, poiché quello che è da temere, l’irrazionale, è adattarsi ai
modi di una vita che non è la propria. Ma la via socratica non è una via come
un’altra, “nega ogni fermata ed è sempre ancora non finita tanto che il
fermarvisi e compiacersene è abbandonarla per sempre”.
Platone per dire educazione dice
mimesis, da qui a omologhia il passo è breve e più facile però il compito del
filosofo di “fingere la felicità della sua felice società d’infelici”. A
leggerle, queste pagine ribadiscono se ce ne fosse bisogno, l’essere scrittore
di Carlo Michelstaedter, essere che Heidegger non conosce e per filosofare si è
dovuto inventare una lingua tutta sua. Sarebbero da rileggere, magari
ristampate, queste sacrosante Appendici.
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