La mia versione dell’Iliade è
quella di Rosa Calzecchi Onesti con testo a fronte, che uscì nel 1950 per
Einaudi tra “I Millenni”. Della stessa traduttrice, l’Odissea. Nascosta da
qualche parte, “L’Ilide ou le poème de la force”, lettura weiliana del poema
alle origini della letteratura occidentale, lettura che insegna la forza quale
devastatrice di vinti e vincitori. Ora questi libri affollano il tavolo dove
leggo e scrivo, chiamati in causa da Achille Odisseo. La ferocia e l’inganno
di Matteo Nucci uscito per Einaudi nella collana Sile Libero VS che apre ai
dualismi (ghiottissimo appare l’agone “Atene Sparta. Democrazia e
totalitarismo” curato da Eva Cantarella).
Il libro, duecento pagine, si
divide in quattro parti dove i due eroi omerici non si lasciano mai, avvinti
l’uno all’altro ma opposti – Achille piè veloce e Odisseo re astuto. Il primo,
biondo e bello da far tremare i polsi è il presente morso a sangue; il secondo,
irsuto e muscoloso, è il futuro sempre oltre, mai qui.
Utile in quanto divulgativo, il
libro di Nucci acquista andando avanti quel po’ di non detto necessario al
lettore per esserci. Prima non è difficile incorrere in sentenze come: solo chi
conosce la propria debolezza può dirsi uomo, chi non sa piangere non sa dirsi
uomo, chi non prova vergogna non ha dignità, eccetera. A parte farsi prendere
la mano, Matteo Nucci riesce nell’intento di farci riandare a scorrere i poemi
omerici, offrendoci quel movente che avevamo perso: “sono concepiti in maniera
tale che il lettore, nonostante sappia bene cosa sta per accadere, desidera
spesso intervenire poiché ha l’impressione di poter cambiare il corso degli
eventi.”
E allora rivai, ecco il verso 34
del libro diciottesimo del poema dell’assedio, quando Antiloco piangendo tiene
stretti i polsi di Achille che grida, gli tiene i polsi perché “aveva paura che
si tagliasse la gola col ferro”. È capace di soffrire al punto di farsi fuori,
Achille. Senza Patroclo, la vita non è più nulla. E allora a te che sai come andrà
a finire verrebbe da dire ad Antiloco, lascialo, lasciagli libere le mani. Ché
le levi su sé pur di aver vivo Ettore elmo lucente!
È un attimo, segui il nulla osta
dell’autore e ti distrai, cosa impossibile per Odisseo che mentre parla e ascolta,
premedita. Ingoia ora per ucciderti poi, come fece con il povero re di Eubea,
colui che ebbe il merito di smascherarlo nel trucco di sé folle per sfuggire
alla guerra, Palamede, probabile inventore del backgammon gioco cui l’autore
dedica un capitoletto.
Anche Achille tentò di non
partire. La madre Teti lo nascose camuffato da fanciulla nel gineceo di
Licomede, ma Odisseo lo stanò.
Entrambi non ritenevano quella
guerra degna di essere vissuta, Achille vi compì il suo destino, Odisseo
tornerà a casa. “Andra moi ennepe Mousa polytropon”: è l’incipit del poema del
ritorno, Odisseo è detto “multiforme”, capace di tante abilità da rasentare
l’odioso. Un trasformista: ma l’autore ci avverte – “niente è più perfido e
mortifero dell’istinto moralizzatore.”
Letto ciò a pag 72, andare
avanti è stato eroico. Sì, “Omero è irrimediabilmente lontano, eppure…”. Non è
tanto “l’irrimediabilmente lontano” – ai miei occhi il cantore è vicino quanto
l’ultimo lettore dei suoi poemi -, ma l’“eppure” è insopportabile: c’è da far
quadrare i conti e la scrittura di Nucci è onnivora, ingloba tutto.
“La paura del fallimento domina
alla stregua di un sacro incubo nell’opulento Occidente globale”: l’autore
suggerisce di combattere questa paura con la paura della paura, invece di un
invito a fallire e basta – semmai fallire meglio-,
macché, paura al cubo. Ma stando
a come scrive non deve temere nulla, perfettamente leggibile a chiunque.
E Omero? No, non la questione
omerica, ma l’Aurora dalle dita rosate, e le similitudini le più ardite?
Non risulta se non quale
“magistrale scrittura”.
Libro di duecento pagine,
potevano essere benissimo novanta, anche meno.
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