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Il virus che rende folli

 L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuole far l’angelo fa la bestia. Così pensava quel sant’uomo di Blaise Pascal ché sapeva, per parlare di morale bisogna essere profondamente immorali.

All’ultima pagina de Il virus che rende folli, si capisce tutto, è scritto mosso dalla rabbia. Bernard-Henri Levy in terza di copertina di questo attraente libricino nero edito da La Nave di Teseo, è detto filosofo, giornalista, attivista e regista. “Da oltre 40 anni la sua voce si leva con forza sui temi della morale e della contemporaneità”. Appena un centinaio di pagine ma densissime su quello che abbiamo appena vissuto e stiamo ancora vivendo a causa della pandemia. Cento pagine che vanno dal disagio, l’idiosincrasia, il dolore fino alla vera e propria rabbia. Seppure ammetta sia troppo presto, ora che si comincia a uscire dal lockdown, per “decifrare il codice del virus, ma anche il codice della paura che ha causato”, Levy aggiunge che è però ora di raccontare gli effetti che il pandemonio ha avuto sulle nostre società e sulle nostre menti. Premettendo che si è rimesso alle istruzioni per arginare il virus, l’autore fende colpi a destra e a manca contro chi fomenta il panico epidemico che sta “montando sulle punte di un virus che è folle e rende folli.” 

Follia la straordinaria sottomissione mondiale a un evento tragico ma non senza precedenti: la spagnola fece cinquanta milioni di morti, l’asiatica due milioni, l’influenza di Hong Kong un milione. Ma se le precedenti pandemie sono state dimenticate, questa che viviamo rimarrà: “Le cose non si erano mai spinte tanto in là. Mai prima d’ora un medico si era invitato nelle case delle persone, ogni sera, ad annunciare come una triste Pizia, il numero dei morti del giorno.” Sebbene non senza precedenti, questa pandemia crea un precedente nell’aver rimesso nelle mani dei medici i pieni poteri quasi fossero superuomini. Eroi sono stati chiamati – in Italia ne sono caduti più di duecento -, eppure ogni medico sa che la medicina, pur avvalendosi di scienze, non è una scienza e infatti si parla di arte medica, un’arte che spesso procede per errori. Ciò nonostante, c’è stato, è innegabile, uno strapotere medico, insieme a un forsennato igienismo che alla sensibilità di Levy risuona con gli accenti di una pericolosa politica eugenetica. 

Considerazione: ergersi a fustigatore dei costumi senza l’ombra di un sorriso che evochi l’antico castigat ridendo mores, indica una buona dose di tracotanza, può suscitare idiosincrasia, addirittura un perfido dolore. Lo stesso provato dall’autore – sempre mettendosi al riparo con dichiarazioni di appartenenza a chi vede nella lotta al cambiamento climatico un’emergenza del nostro tempo -, all’idea che il virus non fosse del tutto cattivo, “che possedesse anche una virtù nascosta e che ci fosse una parte di questa guerra di cui gioire.” Assurdità millantata dai militanti secondo i quali, da parte loro non s’è aspettata la pandemia per dare l’allarme della follia di un mondo che non poteva andare avanti così e “che stava andando dritto contro il muro”. Qui, Levy, vede la banale esultanza di quelli che chiama i “velavevodetto” nel salutare “la vendetta della realtà sull’arroganza degli uomini e dei loro peccati.” 

È che Levy è uno strenuo difensore della globalizzazione e seppur rivendicando a più riprese la sua formazione epistemologica, ammettendo che c’è modo e modo di dire le cose, non risparmia niente a nessuno. E pur di glorificarla, la globalizzazione, ricorre al risaputo: i virus esistono dalla notte dei tempi e ogni volta, dalla peste di Atene in poi, furono “l’arma di un crimine della natura contro gli uomini più che il segno della violenza compiuta dagli uomini contro la natura.” Epistemologo ma insensibile al fatto che quaggiù tutto cambia e sebbene si dica favorevole a risistemare il mondo, non dice una parola contro gli allevamenti intensivi o la grande distribuzione. No, dopo i “velavevodetto” (se la prende addirittura con il filosofo Bruno Latour, la mitezza fatta persona), colpevoli di mettere sotto accusa il mondo di prima, se la prende, ma è un bersaglio facile facile, con la destra della destra e i suoi anatemi in un’ottica di castigo. 

Quanto sforzo a farsi unico paladino di un pensare giusto e corretto, quanta acrimonia a prendersela con il resto dell’umanità impaurita che accettava la segregazione cercando di farsela piacere. Sarà che sono per il vivi e lascia vivere e, se t’è dato, aiuta a vivere. Ma Levy storce più del naso di fronte ai contenti del lockdown e volutamente ignaro del “ciascuno fa quel che può” tuona contro i diari della quarantena e ci ricorda, coltissimo e non senza coraggio ma forse molto solo, che “l’inferno siamo noi (…) persone chiuse nel proprio corpo, ridotte alla nostra vita di corpi e che, sotto il dominio del potere medico, o del potere in generale che si appropria del potere medico, o della nostra sottomissione a entrambi, si sottomettono a esso.” Colpevoli di un sano istinto di conservazione? Se non di amore per la vita? Che avremmo dovuto fare se non rispettare le regole, forse queste sì, troppo improvvisate, ma è pur vero che un accidente è fulmineo, per arginare il veleno? Levy risponde che non bisognava farsi intimidire da quello che chiama falso dibattito sulla vita e sull’economia, bisognava invece soppesare il costo in vite umane da un lato e dall’altro “il costo della glaciazione indotta da quel coma autoinflitto sulla quasi totalità del pianeta, trasformatosi in laboratorio di un’esperienza politica radicale.”

Insomma, a parte le dichiarazioni di buona condotta e di buone intenzioni a cambiare questo mondo, Levy giudica grande indecenza il lockdown. Per lui, era il caso di aprire un grande dibattito non sul mondo di prima o di domani, ma su quello di adesso. Posizione condivisibile, ma spunta una domanda: il mondo di adesso non è quello della globalizzazione?


Commenti

  1. Qui si legge una capacità critica fuori dal comune senso del pudore "giornalistico", gentilissima Eddagaber, unita ad una altrettanto elegante padronanza della lingua italiana (che non guasta mai) e che la rende comprensibile a diversi livelli di lettura. Per anni Lei è stata la miglior "cronista" (che brutta parola) di cultura & spettacolo in Sardegna, e non mi meraviglierebbe se questo blog diventasse, nel mare magnum della (dis)informazione italiota, un piccolo punto di riferimento per liberi pensatori e lettori critici e insaziabili, ancora in grado di apprezzare le qualità dettate dall'onestà intellettuale di chi, come Lei, cerca di scrivere sempre in equilibrio tra mente e cuore. Cordialità.

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