Il bello è difficile, cantava il
poeta. Ecco un libro bello assai: Natura e follia di Paul Shepard che
una piccola e preziosissima casa editrice – Edizioni degli animali – traduce
per la prima volta in lingua italiana grazie a Francesca Frulla.
Shepard – filosofo, biologo, antropologo -, ci ha lavorato, spaziando tra biologia, genetica, zoologia, antropologia, psicologia, etologia, storia e teologia, dagli anni Sessanta del Novecento per poi pubblicarlo nel 1982.
È il suo libro più teorico,
testamento di un pensiero che dirlo originale è dir poco.
Un libro che solo perché spiega
come nasca l’ideologia, sarebbe da tenere più che caro.
Tutto inizia in un remoto
passato, quando la nostra specie viveva in armonia con flora e fauna. All’epoca
eravamo cacciatori-raccoglitori. Il cambiamento – la follia – incominciò tra i
cinquemila e diecimila anni fa, divenendo più distruttivo e meno spiegabile con
il progredire della civiltà.
L’idea di una società malata non
è nuova, ma senza ricorrere al solito Freud, basti tenere presenti alcune
costanti che ci hanno portato a un qui che non piace a nessuno: occupazione sconsiderata
di tutti gli habitat della terra; l’abuso fisico e chimico del suolo di aria e
acqua; l’estinzione e il dislocamento di piante e animali selvatici; il
disboscamento indiscriminato delle foreste e l’impoverimento dei pascoli;
l’espansione della popolazione umana a spese della salute bioetica del mondo
che trasforma tutto in qualcosa a uso e consumo dell’uomo. Anziché sentirci,
come ancora si sentono le ultime popolazioni tribali, ospiti del mondo,
noi mondo civilizzato, sentiamo e agiamo come padroni. “Secondo me –
scrive Shepard -, l’ontogenesi di tali popolazioni tribali è da ritenersi più
normale della nostra, e potrebbe essere considerata uno standard da cui noi
abbiamo deviato”. Due parole sull’ontogenesi: è l’intera crescita, compresa
quella fisica, dei nostri primi vent’anni di vita, il nostro venire in essere o
ontogenia. Un percorso lungo e complicato: “Il neonato ha bisogno di un
rapporto continuo con una madre specifica, che gli canta e gli parla, lo
allatta, lo tiene in braccio e lo massaggia, lo cerca e si diverte con lui. Per
il neonato in quanto futura persona, la forma dell’alterità deriva da tale
relazione con la madre.” Una relazione che accadeva in un mondo di piante vive,
in una tessitura lussureggiante: “L’aria non filtrata, non inquinata, lo
svolazzare degli uccelli, la luce del sole e la pioggia, il fango da assaggiare
e la corteccia dell’albero da stringere tra le mani, il rumore del vento e
dell’acqua, il richiamo degli animali unito a quello delle voci umane.” Ancora
tra le braccia della madre avviene la seconda fase della consapevolezza in cui
l’esterno è un altro interno: il bambino inizia a balbettare e poi parlare e la
natura “è il vocabolario in cui le parole possiedono la solida realtà delle
cose.” Gli animali allora – quelli che noi civilizzati abbiamo sterminato in
centinaia di specie -, avevano un’importanza determinante ché “ciascuno a modo
suo sembra incarnare un certo impulso, una certa reazione, o un movimento in
cui rispecchiarsi.” Una crescita armoniosa in cui il bambino imparava che tutta
l’esistenza racconta qualcosa e alla fine dell’infanzia giungeva ai giorni più
emozionanti della sua vita, l’iniziazione dell’adolescenza ai riti di passaggio,
rituali che affermano la qualità metaforica, misteriosa e poetica della natura.
Rituali che noi civilizzati abbiamo ridotto ad estetica e amenità. Riduzione
non senza conseguenze: con un effetto farfalla, oggi paghiamo salato le
mutilazioni inferte alla maturità personale. Se essere completamente adulti
significa comprendere e affermare i propri limiti, e se è vero com’è vero che
viviamo in un mondo in cui l’umiltà e il tenero senso del limite non sono più
premiati, allora è vero anche che siamo infantili. Per spiegare come tutto ciò
sia stato scriteriatamente possibile, Shepard prende in esame quattro periodi
storici: le prime forme di agricoltura, l’era dei padri del deserto, la Riforma
e la società industriale contemporanea. Dall’inizio del Pleistocene e per tre
milioni di anni, siamo stati cacciatori-raccoglitori, poi l’archeologia ci dice
che le prime colture precedettero la nascita delle città di circa cinquemila
anni. Dal ricercare e raccogliere cibo si passò ad accumularlo, piantarlo,
coltivarlo e commerciarlo, quindi le coltivazioni divennero annuali, un fatto
che determinò un cambio di attenzione decisivo, il nucleo del pensiero
civilizzato: “Se gli agricoltori smisero di ascoltare un milione di lingue
segrete nelle terre incontaminate fu, a posteriori, per sviluppare tecniche di
addomesticamento con cui modificare la terra e ottenere la base simbolica di
una visione cosmologica ciclica, e infine del concetto di immortalità.” La
Terra fu considerata come una madre che protegge e nutre ed ecco che oltre a
metafora naturale, per i sedentari agricoltori diventa la figura mitologica
dominante. Non durerà molto però: con l’impoverimento del suolo, che fu eroso o
salinizzato, la terra, a cui strappavamo un magro raccolto, sembrò “corrotta”.
“In ogni caso, la stessa Madre Terra sarebbe diventata oggetto di una certa
diffidenza, per lo stesso motivo per cui la colpa sarebbe caduta su Eva.” Non
dà come possibile il matriarcato, Shepard, ché con i padri del deserto, cioè
gli ebrei antenati dell’Antico Testamento, fu subito patriarcato contro cui usa
l’arma dell’ironia anche se a tratti - doveva essere un buon filantropo -, gli
si incrina la voce, spezzata dalla desolazione per l’avvento del monoteismo,
della storia. Per tutto il libro, pervaso da un senso femminile alto, mi sono
aspettata che prima o poi arrivasse a opporre all’invidia del pene, il rancore
perverso dell’uomo per l’utero femminile, il nostro dare la vita. Ma di ciò non
c’è traccia.
Cita George Steiner, Shepard,
dicendo che provò persino a “spiegare la persecuzione degli ebrei e
dell’Olocausto come esempi dei periodici scoppi di vendetta contro gli ideatori
del monoteismo.” È che il pensiero è politeistico, “una realtà in cui verità e
falsità, vita e morte, bellezza e bruttezza, bene e male, sono perennemente e
inestricabilmente mescolati”. Ecco cosa rende inaccettabile il monoteismo alla
psicologia umana: “La storia si occupa di eventi subordinati a una singola
divinità. (…) Essa è inadeguata come spiegazione del modo in cui la nostra
esperienza percepisce.” Disperati troviamo rifugio nell’ideologia, un credere
dialettico religioso o secolare che riempie un vuoto. Il “noi contro loro”.
Cita Kenneth Rexroth, Shepard,
secondo cui l’intero periodo giudaico-cristiano-islamico è stato una fase di
incomparabile psicosi percepita e sociale, e di barbarie internazionale.
Fase che nega alla donna e al
bambino ogni peso, autonomia e realtà. Ne deriva un mondo sempre più astratto,
il prezzo del patriarcato.
Con mano ferma, Shepard,
mantiene tutti i fili della sua visione onnicomprensiva, visione che fa tremare
i polsi: la traduzione in greco dell’Antico testamento, l’inizio
dell’interazione tra cultura ebraica e greca, risalente al III secolo a.C., è l’unione
di due radici dell’occidente moderno che condividevano gli stessi scopi di
astrazione e ascetismo spirituale e intellettuale. Il Nuovo Testamento poi, fu
un capolavoro mondiale di ideologia astratta, contrario alla vita e ai sensi.
Una idiosincrasia che portò i protestanti a sostituire la natura con il corpo,
la cui denigrazione toccò il femminile. “I protestanti enfatizzarono non solo
il disgusto, l’orrore e il fascino per le viscere e i genitali, ma per la morte
e la maledizione ricadute su tutta la materia organica, e sulla vita stessa.”
Va da sé che madre e bambino, e il loro mondo coerente, vengano ripudiati. Tutti
gli strappi da questo mondo coerente vanno a sommarsi nell’uomo e nella donna
contemporanei, che vivono città sull’orlo di una crisi di nervi in tempi, i
nostri, contrassegnati dalla ricerca di potere. “Il desiderio di onnipotenza è
un sogno infantile che con la maturità dovrebbe diminuire, non crescere. Se
incontrollato, diventa un’ossessione che conduce a una visione del mondo
fortemente polarizzata, in cui ogni cosa è buona o cattiva.” Torna l’ideologia
del “noi contro di loro”, ancora una volta generata dal senso di impotenza in
un mondo dove “la sicurezza sembra dipendere da un’incessante lotta per
difendere il proprio status e dominio.” Questa visione distorta e angosciosa –
Shepard la chiama a buon diritto, schizoide -, non vede più la natura come
capace di rivelare la simbiosi che tiene insieme l’universo.
Non è né pessimista né ottimista Shepard, così come non appartenne né alla sinistra né alla destra, di certo parteggia per un tempo in cui l’umano e il non umano raggiunsero un rapporto sano. Il libro comunque, si chiude con una speranza che è una certezza: in noi, sano, persiste la sincerità dell’impulso “che ci donerà la sua metafisica di salvezza”.
Eccellente. Appassionante. Vero.
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