Forse tutto è autobiografia, con
buona pace di crede nell’oggettività. Viene da pensarlo se ci si avvicina a una
figura che del continuo mutare della coscienza, trasformazione incessante, ne
sapeva eccome e con coraggio.
Goliarda Sapienza è stata capace
di dissezionare poeticamente il rapporto psicoanalitico che ebbe con un noto
terapista, all’epoca, siamo nel 1962, fautore o vittima dell’analisi selvaggia
che allora alcuni analisti praticavano.
Il filo di mezzogiorno è il
libro uscito per La Nave di Teseo che racconta quasi tre anni di un rapporto
segnato da un profondo transfert. Ma è bene fare un passo indietro.
Soffriva di depressione,
Goliarda, ma dati i natali – era figlia di genitori illustri del socialismo
italiano -, e dato l’ostracismo verso la psicanalisi prima del fascismo, poi
della sinistra marxista a cui lei seppur criticamente apparteneva, non si era
rivolta all’analisi.
Ci arrivò, meglio, ci capitò.
Soffriva d’insonnia, un non dormire malefico che neanche l’uso di sonniferi
mitigava. Una notte, pur di finire tra le braccia di Morfeo, abusò di quei
sonniferi: la ritrovarono in coma. Nonostante al risveglio dichiarasse che il
suicidio non le era passato nemmeno per l’anticamera del cervello, fu affidata
a un medico che “curava” con l’elettroshock. Il risultato era che Goliarda
appassiva sempre più. Fu allora che comparve l’analista protagonista del Filo
di mezzogiorno: si prese la responsabilità di prenderla in cura a domicilio
e così lei uscì dalla clinica e dalle scariche elettriche. Per entrare nella
terapia poco ortodossa di un analista che iniziò con lei quel classico lavorio
basato sul racconto della vita dall’infanzia in poi, e dei sogni. Come in una
pièce teatrale espressionista o un film visionario, appaiono tutti i personaggi
che hanno contribuito al formarsi della personalità di Goliarda, e se a lei
appaiono in sogno – nella parte onirica il libro è ricco di poesia dolente e
struggente – nelle idee dell’analista si risolvono in tanti artefici di una
persona segnata dal “vizio” abbandonico. Così tanto azzerata, da attribuire
agli altri tutto il bene, e riservare a se stessa la parte dell’inadeguata.
Si dice che tutti gli artisti,
in fondo, siano dei disadattati che nella loro arte gridano il disagio di stare
a questo mondo. Mondo nel quale, vogliamo credere in buona fede, l’analista
tenta di rendere autonoma Goliarda. Che all’inizio scarta e sgroppa come un
cavallo riottoso di fronte all’ostacolo, poi, conquistata dalla totale
dedizione dello psicoterapeuta, si abbandona all’analisi. Tanto da innamorarsi
di quest’ultimo e superato il freddo pervicace che s’accompagna alla
depersonalizzazione, glielo confessa: addirittura gli chiede un figlio, lei che
non aveva mai detto “ti amo” a nessuno, ignorante com’era – in casa i genitori
non ammettevano il menomo cenno d’affetto, rubricato come “smanceria” -,
dell’abc del sentimento.
Una madre anaffettiva e ferrea
può provocare danni incalcolabili, danni che il terapista tenta di rimuovere
con un controbattere ostinato – il libro, divenuto un manuale per molti
psicoanalisti, è incredibilmente verosimile e puntuale nella “parte” del
terapista.
Cosa non andò? A ben vedere,
forse, un’eccessiva intimità con la paziente, e un peccato di onnipotenza: a un
tratto, lo psicoterapeuta “prese” in cura anche il compagno di Goliarda, il
cineasta Citto Maselli, contravvenendo a una regola base della psicanalisi.
A un tratto, proprio al culmine
di un sentimento amoroso sbocciato nonostante il freddo deserto della
depressione, fa marcia indietro, nega l’amore per parlare di narcisismo,
interrompe bruscamente le visite a domicilio, la tratta da bambina viziata
invitandola alla tipica analisi in studio tre volte a settimana. Poi, neanche
questo: rinnega la psicanalisi come inutile, scaccia i suoi pazienti compresa
Goliarda che non regge e stavolta sì, tenta il suicidio. Ripresa in extremis
dal buon Citto, viene portata in una clinica di maternità per evitarle la
clinica psichiatrica e le relative “cure” all’elettricità.
Da qui in poi, e siamo alla
fine, il terapista scompare e immensa campeggia Goliarda che memore e capace di
trarre il bene da tutto il lavorio di quasi tre anni, torna alla vita, alla sua
vita: “Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto e alla sua morte…se
siamo morbosi, malati, pazzi a noi va bene così. Lasciateci la nostra pazzia e
la nostra memoria.”
Nella prefazione, Angelo
Pellegrino, che nel 1998 pubblicò il potente L’Arte della gioia definisce
Il filo di mezzogiorno un libro d’amore, amore e critica per l’analisi:
forse è eccessivo, ma di certo fu scritto con amore.
Molto bello.
RispondiEliminaMolto interessante: non sapevo che Goliarda fosse la moglie di Citto Maselli. Grazie.
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