Flaneuse, mi dicevano. Camminavo
tantissimo, mi piaceva perdermi nella mia città e poi, chissà come, ritrovare
la strada di casa.
Leggendo Camminare può
cambiarci la vita del neuroscienziato Shane O’Mara, ho finalmente capito come
riuscissi a tornare all’ovile sana e salva e, mirabilia del nostro cervello,
come siano possibili i viaggi nel tempo mentali oltreché quelli fisici nello
spazio.
Tutto comincia settant’anni fa
con la scoperta, di Edward Chace Tolman dell’Università di Berkeley, di quella
mappa astratta dell’ambiente che il cervello crea per potersi orientare nel
mondo tridimensionale, la cosiddetta mappa cognitiva. Da settant’anni in qua il
quadro di questa preziosa mappa si è fatto, grazie a studi ed esperimenti via
va più sofisticati, sempre più complessa. C’è un vero e proprio sistema Gps nel
cervello, distribuito in più aree ovviamente connesse e tanti sono i tipi di
cellule che contribuiscono al senso dello spazio. Un sesto senso silenzioso,
detto propriocezione che prende forma a nostra insaputa e lo notiamo solo
quando ci tradisce. Solo ora, grazie a risonanze magnetiche e Pet, con gli
esperimenti di ultima generazione stiamo cominciando a capire in che modo
camminare “influisce sull’attività cerebrale e, quindi, anche in che modo
influisce sul cervello per prepararlo all’azione.” Ma brain imaging a parte,
Shane O’Mara, che ama camminare tanto nella natura quanto in città, da solo o
in compagnia, risale su su fino ai nostri antenati. “Camminare è un gesto
legato a doppio filo con il nostro viaggio evolutivo: un viaggio verso
l’andatura eretta che permette di avere le mani a disposizione, di tenere la
testa in alto e la colonna perpendicolare al suolo.” Non ci è dato ancora
sapere quando iniziò il bipedismo, anche se alcuni resti fossili africani ne
portano traccia, come quelli della celebre Lucy, femmina di australopiteco
risalente a 3,2 milioni di anni fa con struttura anatomica simile alla nostra,
ma l’Homo sapiens con ogni probabilità è diventato una specie a sé 300.000 anni
fa e 60.000 anni orsono lasciò la sua zona di origine, la Great Rift Valley in
Africa orientale. Da lì, camminando, abbiamo conquistato prima tutta l’Africa,
poi il continente euroasiatico, quindi le Americhe e la regione pacifica
dell’Asia, e da lì l’Oceania. “A camminare, forse siamo i migliori in assoluto.
Questo il segreto alla base della nostra ubiquità sulla terra. Siamo la specie
animale più diffusa.”
Anche se i primi vertebrati a
vedere la luce furono i tetrapodi, dotati di quei geni, i geni Hox, comparsi
420 milioni di anni fa che supportano i circuiti responsabili della
deambulazione e sono simili in tutti gli animali terrestri. E come tutti gli
animali, anche noi ci aggiriamo per il mondo cercando di risparmiare le forze:
“L’uomo adotta prontamente il passo più economico, quello che rende più facile
camminare e che consente anche di risparmiare quanta più energia possibile.” Ma
quanti sforzi facciamo per imparare a camminare e poi ce ne dimentichiamo! La
psicologa dello sviluppo Karen Adolph si è posta la semplice domanda: Come
s’impara? La risposta è altrettanto semplice: si impara facendo migliaia di
passi e cadendo decine di volte al giorno. Prima gattoniamo, poi, intorno agli
undici-dodici mesi impariamo a camminare, passaggio chiave per raggiungere l’autonomia
individuale nonché lo sviluppo cerebrale. Non ci rendiamo conto ma camminare è
una straordinaria conquista neuro-muscolo-scheletrica! Pensate alle gambe:
cambiano posizione ritmicamente, una si allunga, l’altra si irrigidisce, poi a
ruoli invertiti, e procediamo intanto eretti.
Flaneuse, dicevano, da un
impossibile femminile di flaneur, l’uomo vagabondo di Baudelaire che vagava per
la Parigi di Ottocento, osservando e riflettendo. Camminare in città non è
sempre sicuro e dato che nel 2050 l’80-90 per cento della popolazione mondiale
vivrà nei centri urbani sarebbe bello e utile un piano urbano a misura di
pedone da rendere così le città posti molto più piacevoli dove vivere e
lavorare. E nomina Bologna, O’Hara, come posto perfetto da girare a piedi,
descritta da Umberto Eco come città corposa e senza escrescenze, fatta di spazi
comuni, portici, bar, negozi, “una città dove all’altezza dello sguardo ci sono
vetrine, tavolini di caffè e gli occhi della gente.” E se all’altro capo della
scala ci sono città auto-dipendenti, un urbanista, Jeff Speck, invita i
progettisti a pensare le strade come “salotti all’aperto”, tanto più che
l’invecchiamento della popolazione dovrebbe portare in primo piano i problemi
di deambulazione, per non parlare delle barriere architettoniche che rendono
difficilissima la vita ai disabili.
Purtroppo – contrariamente a
quanto prescriveva Ippocrate dicendo che camminare è la migliore medicina -,
trascorriamo l’87 per cento del tempo in ambienti artificiali quali uffici, case
e negozi. E quanto la vita sedentaria sia malsana, lo dice un recente studio
che ipotizza addirittura un cambiamento della personalità in peggio diminuendo
l’apertura mentale, l’estroversione e l’amicalità. Ma il meglio, è camminare
all’aperto, anche se trascorrere tempo a contatto con la natura è cosa che, a
quanto pare, prendiamo sottogamba, eppure dovrebbe essere considerato, per una
vita dignitosa, alla stessa stregua dell’acqua potabile, la corrente elettrica
e gli ospedali pubblici. Stando all’Oms poi, la depressione è uno dei rischi
più probabili per il 15 per cento della popolazione che potrebbe soffrirne nel
corso della vita e uno studio condotto dallo psichiatra ed epidemiologo Samuel
Harvey sentenzia che il 12 per cento dei casi si potrebbe prevenire con un’ora
di attività fisica a settimana. “Essere sedentari fa male, anche quando si è
giovani e in forma: se non vengono utilizzati i muscoli perdono rapidamente e
facilmente volume. Come se non bastasse, la perdita di massa muscolare si associa
anche alla mancata produzione di nuovi neuroni nelle poche aree cerebrali che
continuano a produrne per tutta la vita.” Se i muscoli piangono, il cervello
non ride.
Ben lo sapevano i Greci che
impartivano insegnamenti filosofici in movimento nella scuola peripatetica; ben
lo sapeva Nietzsche secondo cui solo i pensieri nati camminando avevano valore;
ben lo sapeva Kierkegaard che ogni giorno si conquistava il benessere
camminando e non conosceva pensiero tanto opprimente da non poter essere
allontanato con una passeggiata. La creatività va a braccetto con il movimento,
a volte basta sgranchirsi le gambe e allungare la schiena, ma molto più potente
è il movimento all’aria aperta come dimostra uno studio dell’Università di
Stanford secondo cui camminare dà una spinta in più alla creatività e alla
capacità di risolvere problemi in maniera innovativa. E sarebbe bello e utile
assai se nei luoghi di lavoro fosse possibile “farsi un giretto”, magari con il
collega preferito, a cercare soluzioni che inchiodati alla sedia non arrivano.
Un proverbio africano dice: Se
vuoi andare veloce, vai da solo. Se vuoi andare lontano, vai in compagnia;
proverbio che s’addice all’ultima parte del libro - edito da Einaudi per la
traduzione di Elisabetta Spediacci -, quel camminare in gruppo che può dare
euforia da adunanza, ma che altrimenti ha una profonda valenza sociale come
dimostra il marciare quando è abbinato “ad altre efficaci forme di azione
collettiva mirate a cambiare leggi e politiche.”
Perfettamente d'accordo, faccio mediamente 5 km al giorno in riva all'oceano
RispondiEliminaCaro Anthonys,
RispondiEliminane sono felice assai, chissà che spettacolo!
Grazie dell'attenzione e buone passeggiate!