“Senza resto” è locuzione avverbiale che ricorre spesso ne La vita sensibile di Emanuele Coccia, quasi a voler dichiarare che la sua è filosofia che non fa prigionieri. Scrive chiaro il filosofo “maitre de conférences” all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi: un libro che letteralmente mi ha fatto saltare sulla sedia riportandomi alla lettura giovanile del Trattato delle sensazioni dell’abate di Condillac. Pubblicato tra i Saggi dal Mulino nel 2011, La vita sensibile si divide in due parti – Fisica del sensibile e Antropologia del sensibile -, e si dà due compiti: indagare l’esistenza del sensibile, e studiare i modi in cui l’immagine e il sensibile danno corpo alle attività spirituali e danno vita al suo stesso corpo. Dacché Cartesio negò autonomia ontologica alle specie intenzionali, la filosofia dorme un sonno dogmatico e questo libro è una sveglia simil acqua gelida in faccia al dormiente.
Per una volta, un filosofo si
pone senza pregiudizi di fronte alle immagini e alla loro esistenza, e con
parole calibrate pone il lettore dinnanzi al fatto che “le cose” di per sé non
sono percepibili, hanno bisogno di diventarlo e lo divengono fuori di sé e
prima di entrare negli organi di senso degli uomini. In altre parole il
sensibile non coincide con il reale e tra realtà e fenomeno c’è una differenza
che non può essere ignorata. “Natura è nascimento di cosa” sospira l’adagio
vichiano e il filosofo Coccia ci avverte che il sensibile, cioè l’essere delle
immagini, è “geneticamente” differente tanto dagli oggetti conosciuti quanto
dai soggetti conoscenti. “È necessario qualcosa di intermedio”, diceva
Aristotele, perché si dia sensibile e dunque sensazione, uno spazio esteriore,
che sta tra l’oggetto e il soggetto: questo intermediario, nient’altro che un
tramite, è un metaxù. Non si tratta di spazio vuoto, è esso stesso corpo,
diverso a seconda dei sensibili eppure con una capacità comune: quella di poter
generare immagini. Incarnazione del metaxù è lo specchio, esteriore sia ai
soggetti che agli oggetti, specchio in cui questi ultimi diventano fenomeni e
in cui i soggetti traggono sensibile necessario per vivere. “Ogni mattina,
quando il nostro corpo passa innanzi allo specchio, la nostra forma esiste in
quattro modi diversi: come corpo che si riflette nello specchio, come soggetto
che si ripensa e si esperisce, come forma che esiste nello specchio e come
concetto o immagine dell’anima del soggetto pensante e che permette a
quest’ultimo di pensare se stesso.” In pratica lo specchio dimostra che la
visibilità di una cosa è “realmente” separata dalla cosa stessa così come lo è
dal soggetto conoscente e che l’immagine nasce con la separazione della forma
della cosa dal luogo della sua esistenza: là dove la forma è fuori luogo, un’immagine
ha luogo. Stando ad Averroè, le immagini – essere speciale, l’essere del
sensibile – sono necessarie ché sono l’unico elemento che permette alla natura
di passare dallo spirituale al corporeo e viceversa.
C’è un termine medio, capace di
accogliere le forme in modo immateriale, un essere che ha un supplemento
d’essere, distinto dalla sua natura e dalla sua materia: è la ricezione stessa.
Ogni medio è tale grazie al proprio
vuoto ontologico, grazie alla capacità di non essere ciò che è capace di ricevere.
E se la ricezione è una sorta di passione senza sofferenza e senza resistenza,
il termine medio nella filosofia scolastica è luogo d’astrazione, separazione:
quindi il sensibile è forma separata dalla sua esistenza materiale. Lo spazio
mediale – grazie al quale il mondo diventa fenomeno – trova nello psichico la
sua forma incarnata e garantisce un continuum nel cosmo in virtù del quale
viventi e ambiente diventano “fisiologicamente” inseparabili.
La nostra esistenza – in sonno e
in veglia – è immersa nel sensibile, tanto che vivere prima di tutto significa
“sensificare” il razionale, dare corpo e esperienza allo spirituale. Così il
linguaggio, forma di sensibilità superiore, è un arcimedio, medialità assoluta
in cui le forme esistono come immagini indipendentemente dai parlanti così come
dagli oggetti di cui rappresentano forma e somiglianza. Viviamo appesi al
sensibile, non al linguaggio, essendo la lingua una delle infinite forme della
nostra vita sensibile.
Laddove il vivente non si limita
a ricevere il sensibile, ma anche lo produce, facendo esistere la propria
interiorità fuori di sé, alienando la propria psiche nel mondo, là è
conoscenza. Nomina Lacan, l’autore, quale pensatore che ha riconosciuto al
sensibile il ruolo fondativo nella costituzione dell’individuo umano:
l’identificazione primaria avviene sempre tramite l’immagine. Immagine che non
solo fornisce un’informazione sulla propria natura, ma è ciò che permette di
costituirla. Nomina Ortega y Gasset, ricordando l’“intracorpo”: “A differenza
del corpo esteriore, l’intracorpo coincide senza resto con il fascio di
sensazioni, emozioni, fenomeni attraverso cui si dà a conoscere da colui che lo
vive”. Un corpo interiore che scorre, la coscienza scorre. Ecco, fin qui,
Emanuele Coccia riesce a spostare di un bel po’ di gradi lo sguardo, da un lato
azzerando l’immediatezza o presunta tale, ché il “sistema mediale” sta a dirci
che tutto è mediato e al contempo a dare nobiltà alla sensibilità, per secoli
accusata di inaffidabilità proprio per via dell’immediatezza; dall’altro,
azzera l’identità come siamo abituati a intenderla: “Solo la pietra vive
esclusivamente in se stessa, proprio perché è incapace di esperienza, di avere
cioè una relazione con ciò che la circonda, in quanto mera immagine,
sensibile.”
Poi, forse, sull’aire del “senza resto”, arriva alla provocazione scrivendo: “La filosofia dovrebbe finalmente scoprire che sono i costumi a formare le essenze, non queste ad esprimersi nei costumi”.
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