Nostra patria è il mondo intero,
nostra legge è la libertà ed un pensiero ribelle in cor ci sta: è il ritornello
di una canzone scritta dall’anarchico Pietro Gori alla fine dell’Ottocento e
riportato in vita da una grande artista, Caterina Bueno. Sì, torno a parlare di
anarchia.
Lo spunto l’offre un piccolo ma
problematico libro – nel senso che apre innumeri questioni – stampato a
settembre dall’amata Elèuthera: Frammenti di antropologia anarchica di
David Graeber nato a New York nel 1962 e morto quest’anno a Venezia.
Antropologo e attivista
politico, Graeber in primis si chiede come mai all’interno dell’accademia ci
siano così pochi anarchici e avviando un’analisi comparata marxismo/anarchismo,
nota come disciplina accademica e politica marxista si siano sviluppate
all’unisono. Il che ha portato non solo “contributi salutari” come l’idea che
l’accademia esista in quanto riferimento morale, e che al suo interno si creino
questioni importanti per la vita delle persone, ma anche disastri come l’aver
ridotto il dibattito intellettuale a una “parodia settaria della politica”.
Comunemente l’anarchismo – letteralmente
“senza governanti” – viene considerato il cugino povero del marxismo, carente
sul piano teoretico ma in cambio animato da grande passione e sincerità.
D’altronde i padri fondatori del XIX secolo – Kropotkin, Proudhon, Bakunin –
erano ben consapevoli di non aver inventato nulla di nuovo visto che alla base
del pensiero anarchico stanno pratiche vecchie come il mondo. Autogestione,
associazione volontaria, mutuo appoggio sono il pane quotidiano dell’anarchia,
come il rifiuto dello Stato, la critica delle disuguaglianze, il rifiuto del
dominio e delle forme di violenza istituzionale, il tutto rafforzato dalla
convinzione che queste prese di posizione sono collegate tra loro e l’una sia
di rinforzo all’altra.
“Un modo di pensare, si potrebbe
forse dire di una fede, più che di un corpus teoretico: la condanna di
un certo tipo di relazioni sociali, la convinzione che per costituire una
società vivibile altre relazioni possano essere più idonee, la certezza che una
società simile possa effettivamente esistere”. Più che “fede”, direi fiducia,
se infatti mi chiedessero perché parteggio per l’anarchia, risponderei che
nutro estrema fiducia nell’essere umano. Nonostante tutto.
Molte le correnti
dell’anarchismo: anarcosindacalisti, anarcocomunisti, insurrezionalisti,
piattaformisti, cooperativisti… Tendenze che si ispirano a una pratica: è che
agli anarchici preme quello che fanno e come si organizzano per raggiungere i
propri obiettivi, quindi pochi anarchici universitari perché questo modo di
pensare si occupa praticamente sostenendo che è a partire da sé
(pratica/pensiero ripreso dal femminismo), dalle relazioni con gli altri che si
cambia concretamente la società. Ciascun anarchico pensa che i mezzi devono
essere adeguati ai fini e che non si può creare libertà con violenza e/o mezzi
autoritari: convincimenti che nessuno spazio trovano all’interno della
competitiva università, cioè un’istituzione ferma al Medioevo. Visione, cioè
teoria, antica assai, l’anarchia è conforme a un progetto che richiama quel
“partire da sé” di poc’anzi: creare le basi di una nuova società “dentro al
guscio della vecchia”, per “smascherare e sovvertire” il dominio con un
comportamento che da solo dimostri come lo Stato non sia necessario.
Il centro del libro è una
domanda: “Che tipo di teoria sociale sarebbe davvero pertinente per chi
desidera un mondo in cui la gente (per indicare la molteplicità Graeber usa
questo termine che a me non piace, preferisco, persone, ma forse è dovuta al
traduttore Alberto Prunetti), sia libera di occuparsi dei propri interessi?” Due
i presupposti di una teoria del genere: il primo recita che “un altro mondo è
possibile” quindi Stato, razzismo, capitalismo e predominio maschile, sono
evitabilissimi per chi non crede che questo nostro sia il migliore dei mondi
possibili. In un altro mondo, forse, staremmo tutti meglio e il dubbio
contenuto nell’avverbio forse è irrinunciabile proprio perché non si parla di
verità inoppugnabili quando non solo si sogna (e i sogni non vanno realizzati
ma appunto sognati), ma concretamente si opera per un mondo libero dalla
violenza sistematica. Non avendone la certezza esatta, Graeber invita
all’ottimismo quale imperativo morale. Il secondo presupposto di una teoria
sociale anarchica è il rifiuto dell’avanguardismo, e qui c’è da cambiare
completamente lo sguardo e il ruolo degli intellettuali: “Compito di un
intellettuale radicale è guardare chi sta percorrendo alternative percorribili,
cercare di immaginare quali potrebbero essere le più vaste implicazioni di ciò
che si sta (già) facendo, e quindi riportare queste idee, non come
disposizioni, ma come contributi e possibilità, come doni.” In tutto il
pamphlet – che a Graeber, antropologo sedicente “forse” marxista libertario e
pragmatico, serve nella misura in cui
afferma che un’antropologia anarchica ancora non esiste ma lui forse
(avverbio mirabile ché apre nuovi orizzonti) ne traccia gli inizi – , aleggia
quella che sarà l’ultima parola del libro: responsabilità. Ecco allora che mi
prendo la responsabilità di saltare nel resoconto ben settanta pagine – tutte
mirabili -, per andare alla fine del saggio dove l’autore regala al lettore
“qualche idea sulle attuali direzioni di pensiero e organizzazione anarchiche.”
Nostra patria il mondo intero: è
questa la vera globalizzazione, il resto è inganno. L’eliminazione degli
Stati-nazione così come da programma anarchico, si porterà dietro
l’eliminazione dei confini nazionali. Così ci si potrà spostare e si potrà
risiedere in qualsiasi parte del mondo. Mondo che per risollevarsi dalle
disuguaglianze, dovrebbe vedere cancellati i debiti internazionali, così come i
brevetti e le proprietà intellettuali.
C’è poi la lotta contro il
lavoro, per eliminarlo definitivamente in quanto rapporto di dominio, e Graeber
si chiede: quali lavori sono veramente necessari? A ben vedere, e ne fa
l’elenco, ci sono un mucchio di lavori che potrebbero sparire, come rinascere
quelli davvero necessari a soddisfare i veri bisogni e i desideri delle
persone, che potrebbero essere svolti in quattro giorni alla settimana per
quattro ore di lavoro quotidiano. “Nessuno però sarà forzato a smettere di
lavorare dopo quattro ore se non ne ha voglia”: molti amano il proprio lavoro,
“può darsi allora che siano disposti a lavorare anche di più, una volta
eliminati i trattamenti indegni e i giochi sadomasochisti, ineludibile
conseguenza di un’organizzazione gerarchica”.
Nostra legge la libertà: ne La
morale anarchica Kropotkin scrive: “A patto che voi stessi non abdichiate
alla vostra libertà; purché non vi lasciate asservire dagli altri; e a
condizione che opponiate alle passioni violente e antisociali di qualche
individuo le vostre altrettanto vigorose: allora non avrete nulla da temere
dalla libertà.”
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