No, non è un manuale, l’autore
lo nega a più riprese; sì, è un libro utile e bello, bello assai. Il pozzo e
l’ago è un viaggio meraviglioso intorno al mestiere di scrivere; per
Einaudi lo ha pubblicato Gian Luigi Beccaria, linguista e filologo, “studioso
dello stile” recita la quarta di copertina.
È un libro che ho letto
avidamente e subito ricominciato non appena finito. Si è fatto leggere, per
ora, due volte in un mese. Lo terrò accanto.
Mestiere lento, lo scrivere,
conta il talento ma ancor più l’ostinazione, la ricerca. Manzoni dedica quasi
una vita a fare e rifare I Promessi sposi. Lo scrittore è un artigiano
paziente, ché scrivere, al contrario di quel che si crede, non è lasciarsi
andare, è fatica controllata. Un artigiano – Proust sosteneva che uno scrittore
attende a un’opera come una sarta cuce un vestito, lavorando in modo
incessante, meticoloso, costruttivo –, un artigiano dalle mani d’oro, come
quelle di Elsa Morante che scriveva sempre a mano.
Ancor più lavora di cesello chi
scrive versi, ché provando e riprovando tende a “orchestrare”, a costruire una
“partitura”. Una tensione, la poesia, ben detta da Montale: è una malattia
endemica e incurabile. “I poeti non sono spinti a scrivere dal desiderio di
raccontare, quanto invece dal battito della lingua che si allontana dalla
consuetudine e si affida a figure del ritmo, a figure retoriche, che caricano
le parole di un potere generativo, suscitante”: fuori dall’uso corrente
della lingua, la poesia è capace di trasportarci letteralmente altrove non
senza scarti, quel tò xenikòn, che è lo straniamento. Diviso tra prosa e
poesia, questo libro, tesoro che le mani non riescono a smettere di sfogliare,
è frutto non solo di tanta erudizione, così stracolmo di citazioni prese a
esempio per dire il vero su un mestiere che alcuni vivono come un corpo a corpo
con le parole; ma di vero amore per la letteratura, capace di far vero il
falso, più vera del vero. Da tenere sempre a mente che scrivere non è
ricordare, ma inventare: come se la testa non sapesse nulla di ciò che la mano
scrive, diceva Wittgenstein. Sì, certo, lo spunto può essere un fatto, anche
autobiografico, ma poi lo diceva bene Primo Levi: uno è il piano
dell’esperienza, un altro quello della trasfigurazione dell’esperienza in
racconto. Quasi a dire che non è tanto il che quel che conta, quanto il come.
Come diceva Alexandre Dumas padre, la trama di un romanzo dovrebbe essere
soltanto il chiodo su cui l’artista appende i suoi quadri. Ecco, Gian Luigi
Beccaria non si stanca di trovare varianti a questo tema, come quando affronta
la descrizione: è sempre fondata sulla realtà, ma lo scrittore la “trasforma”. Un
autore, Beccaria, che non ama l’obnubi-lamento, è vigile sul passaggio epocale
che stiamo attraversando, ma non ne fa la solita lamentatio. È vero, fino al
Novecento la nostra cultura come le altre europee, è cresciuta sulle spalle dei
grandi del passato: “e la lingua letteraria si è costituita come dialogo
ininterrotto, come contiguità tra moderno e antico”, tanto che di Leopardi è
stato detto, un moderno che scrive all’antica, un antico che scrive moderno. E
così riassume Beccaria: “i libri che si fanno coi libri, la letteratura che
nasce dalla letteratura, lo scrittore quale (anche) selezionatore di frammenti
altrui da sottoporre ai reattivi della propria invenzione (…) lo scrittore come
colui che cerca sempre di tessere una rete che leghi l’esperienza concreta che
ha compiuto nella vita, le cose che gli sono accadute, le cose viste o sentite
raccontare, con l’esperienza secolare custodita nei libri.” Oggi – e non è
lamentatio ma constatazione -, le cose sono mutate. Il mercato vuole libri in
cui abbia la meglio la storia, non lo stile, anche se Beccaria continua a
pensare che la forza di una pagina narrativa sia nel montaggio e nello stile:
“Il narratore autentico è consapevole che tutto il suo lavoro è esclusivamente
un’operazione sul linguaggio, cioè i modi di dire una determinata cosa.” E se al
buon lettore non si addice la fretta, tantomeno allo scrittore. Ma in questo
tempo che corre corre, arduo diviene focalizzare la caratteristica della
narrativa odierna, anche perché si produce una quantità stratosferica di libri
che durano ben poco sullo scaffale delle librerie. “È il mercato a richiedere
sempre più romanzi: ci si concentra sui best seller, si punta al marketing
televisivo e alle grandi catene, interessa la narrativa di consumo e meno la
narrativa di qualità. (…) Un pubblico non più attratto dal valore intrinseco di
un testo è guidato a consumare in modo indifferenziato i prodotti più
disparati. (…) Diventare popolare significa occupare un posto preparato dagli
organizzatori. Urgono le scadenze, la fretta morde il calcagno di autori che se
non ce la fanno a rifinire, ci pensa l’editore ad aggiustare il testo,
prepararlo per i gusti del mercato. Come un vino da rendere più abboccato.” Ma
Beccaria, non si tira indietro e col lumicino va a cercare i migliori scrittori
di oggi, ne nomina alcuni, ma l’unico che nomina più di una volta è Michele
Mari. Lo so, avrei dovuto lasciare sedimentare di più le due letture a
ripetizione de Il pozzo e l’ago, prima di azzardarmi a un’umile cronaca,
ma la volontà – non la fretta – di farlo conoscere a più persone, persone che
amino leggere e magari anche scrivere, ha prevalso.
Commenti
Posta un commento