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Tragedia e filosofia - Una storia parallela

 


Ricomincio da me, dalla fine. A vent’anni, forse, sono stata la più giovane Nell nella storia del teatro: la faccia bianca di biacca, in testa un berretto da notte, accucciata in un finto bidone. All’epoca – era il 1984, recitavo per e con Rino Sudano –, il regista mi diceva: tu cominci dalla fine.

Allora quella frase sibillina suonava stridente ai miei inizi teatrali, soprattutto ai miei vent’anni. Oggi la comprendo pienamente. A rincarar la dose di codesta comprensione, la lettura dell’ultima Agnes Heller: «Tragedia e filosofia – Una storia parallela».

Prima di andarsene per sempre, la filosofa ungherese di origini ebraiche, ci ha lasciato una storia dell’Occidente raccontata zigzagando tra due agoni, quello tragico e quello filosofico. Ci guida, l’allieva di György Lukács, in un parallelismo che prende le mosse da una fatalità: la filosofia appare quando la tragedia non è più.

La tragedia – nasce ad Atene – stando a Nietzsche “morì suicida” ché Euripide abbandonò Dioniso e fu abbandonato da Apollo. Euripide fu dunque l’ultimo tragico greco, Socrate, che coniò “amore per la saggezza”, fu il primo filosofo.

Tragedia viene dal greco tragoidia, parola formata da tragos, cioè capro, e oidè, ossia canto; secondo due spiegazioni tradizionali, quelli che scrivevano tragedie venivano remunerati con un montone, o perché si assisteva al sacrificio di un caprone. La Heller accenna a un canto corale, ossia i ditirambi in occasione dei misteri dionisiaci, canto cui s’aggiunse il coro, poi un attore, poi due, poi tre.

Nella sua “Poetica”, Aristotele dice che entrambe, tragedia e filosofia, presentano allo spettatore o al lettore, qualcosa di essenziale sul mondo: l’etica e il destino umani, l’universo, il destino del mondo. A differenza della storiografia – che racconta come certi eventi accaddero o cosa siano –, tragediografi e filosofi ci dicono come le cose avrebbero potuto accadere, come dovrebbero accadere, o come devono essere.

E mentre ciò che accade in una tragedia si sviluppa in “trama”, ciò che accade in filosofia si articola in argomenti e dimostrazioni. Tra le somiglianze, l’essere entrambe costruite teleologicamente, e di certo, filosofi e tragediografi, conoscono il “finale” prima di mettersi a scrivere; entrambe, sono generi letterari, e operano con personaggi ché quelli della filosofia sono le categorie. Ancora Aristotele, definisce la tragedia come sottogenere dell’arte, arte che è imitazione, quindi anche la tragedia è imitazione della natura, cioè le azioni che nei drammi sono atti linguistici, così come in filosofia, solo che in quest’ultima gli atti linguistici non rappresentano le azioni della vita, bensì se stessi e basta.

Platone invece diffidava della mimesi, ché ontologicamente il mondo empirico è già un’imitazione del mondo delle idee, quindi l’arte, al contrario della filosofia che guida dal mondo empirico a quello reale e vero, imita il mondo dell’ombra, è ombra di ombra.

Nella tragedia un personaggio “superiore”, un re o un eroe, s’imbatte in un grave errore che determina la sua caduta. Grazie alla catarsi che ci fa identificare con l’altro – mai con noi stessi -, ci liberiamo delle nostre paure e dell’autocommiserazione.

Sia chiaro, la morte non è tragica, se così fosse saremmo tutti eroi tragici; neanche la sofferenza lo è. E mentre la commedia è universale, la tragedia no. Tragedia, cioè un genere europeo che ha dominato la scena soltanto due volte nella storia: nell’antica Grecia e nella prima modernità. Inoltre, il monoteismo non può offrire materiale per la tragedia per il semplice motivo che gli eroi biblici hanno uno scopo divino: essere salvati da Dio. E il Dio monoteista è giusto, non tradisce mai, a differenza dei capricciosi dei greci.

Si chiede, la Heller, se ci sia una parte di noi che abbia bisogno di filosofia: e si risponde con il solito Aristotele, “Tutti gli esseri umani desiderano sapere”.

Sposa, la Heller, la tesi hegeliana della fine della metafisica, ma si lascia spazio per verificare se tutta la filosofia europea sia finita con la metafisica.

Simile alla tragedia, la filosofia come un uccello migratore – la nottola di Minerva -, ha costruito il suo nido in più tempi e luoghi rispetto alla tragedia, tanto da dire: le filosofie originali sono apparse in tempi in cui l’interpretazione dominante del mondo subiva importanti trasformazioni sociali. A più riprese, la filosofa ungherese, delinea il gemellaggio tra tragedia e filosofia: come la tragedia fu sostituita dal teatro dell’assurdo, così i sistemi filosofici furono sostituiti da una filosofia in frammenti.

E se la sete di sapere è alla base della filosofia, perché sia tragedia occorre uno scontro di mondi: un vecchio mondo muore, uno nuovo nasce. In questa deflagrazione Aristotele vedeva concentrarsi tutto nella trama, mentre Hegel parlava del “personaggio giusto al momento giusto”. Sicuramente il coro cantava e gli attori declamavano metricamente, come ancora accade nella Comédie Française.

E se per Nietzsche fu la filosofia a uccidere la tragedia, ché il pensiero razionale è opposto a questa, Hegel definì l’azione come la manifestazione del carattere del personaggio. Parla di Pathos, dello spirito universale, vale a dire tutto ciò che è essenziale per il personaggio, famiglia, patria, amore: diversi personaggi, tanti pathos che entrano in collisione, questo il destino di tutti i personaggi tragici. Il conflitto tragico, un aut – aut, termina con la riconciliazione dei poteri etici e spirituali, cosa che Hegel formulò così: la tragedia termina con la riconciliazione tra ragione e realtà (così come la sua filosofia dello spirito terminò con la riconciliazione tra metodo e sistema).

Necessita di tre condizioni, la tragedia: il teatro, l’opera e il pubblico.

Duemila cinquecento anni fa, risiedeva in Grecia, poi la si ritrova nella Roma imperiale e dopo, per lunghi mille anni, non ci fu teatro. Riappare in epoca rinascimentale, quando muta il ruolo dell’attore libero ora da maschere. Tre condizioni e cinque caratteri, fanno la tragedia. I suoi personaggi sono presi in prestito da Omero ed Esiodo, dal passato, ma riflettono sul presente, primo carattere. Il secondo è che le opere sono scritte in versi e il terzo, che le azioni principali si svolgono nello scontro verbale, nell’agòn. C’è un quarto elemento, la riflessione filosofica, affidata al coro o a un personaggio principale. Da qui, si può dire che se la filosofia assassinò la tragedia, questa, e precisamente nella parte del coro, diede vita alla filosofia morale.

Il quinto carattere costituente della tragedia, è che il carattere decide il destino: i caratteri imprimono movimento alla tragedia e conducono al risultato finale, la morte.

Quanto alla recitazione, Platone, che in gioventù voleva essere un tragico ma dopo l’incontro con Socrate si mise a scrivere dialoghi filosofici inventando un genere, ebbe a dire che recitare può distruggere la personalità di un uomo, ecco allora che la bandì dalla sua Repubblica. Nel Medioevo la recitazione viene considerata indegna, bassa e in seguito fu vietata come professione immorale, licenziosa e pericolosa. Solo con Diderot le cose andranno meglio: tanto che nel suo “Paradosso dell’attore”, dirà che quanto meno questi si identifica con il personaggio che interpreta, migliore sarà la sua recitazione. Praticamente inventa lo straniamento.

E siamo alla tragedia elisabettiana, per cui i teatri non sono più anfiteatri ma edifici costruiti ad hoc. Gli attori, senza maschera, recitano davanti a un pubblico quanto mai eterogeneo tanto che il teatro tornò a essere l’istituzione della sfera pubblica.

La forma politica dello Stato in cui emerse la tragedia moderna, fu la monarchia assoluta, ponte da quella ereditaria alla repubblica; e nel periodo di stabilità tra guerre e rivoluzioni, il dramma, la tragedia e la commedia, rifiorirono.

E se Cristopher Marlowe mette in scena i grandi poteri della sua epoca, il potere del denaro, quello della conoscenza e il politico, Shakespeare realizzò l’ideale platonico essendo autore di tragedie e commedie. Il conflitto tra vecchio e nuovo tornò a occupare l’agòn. Il problema della condizione umana, il dèinos, fu sollevato e risolto con un interrogativo: l’umanità è magnifica, terribile o entrambe le cose?

Al coro si sostituì, come voce filosofica, il monologo, monologo che rappresenta l’importanza dell’individualità nella vita moderna. Vita che vede gli attori riflettere davanti al pubblico, attori principali che ascoltano la propria voce interiore prima o dopo ogni scelta. Personaggi che sono le fonti del proprio destino e di chi sta loro vicino. Anche la tragedia moderna termina con la morte, spesso collettiva, e il pubblico è contento e soddisfatto quando il peggio è passato. Miti, leggende e storie alimentano le trame shakespeariane, il Bardo scrive in versi le tragedie e in prosa le commedie e si deve all’Illuminismo la piena comprensione del suo genio, tanto che Lessing lo definì l’unico erede e seguace della poesia tragica dell’antica Grecia. Shakespeare come Omero, chi era in realtà? Heller avanza la candidatura a Bardo di Bacon, poi ricorda che conosceva Machiavelli ma anche Montaigne, sicuramente la storia era al centro del suo interesse. Nelle sue opere Dio è puro spettatore, non interferisce mai nello sviluppo della trama, e tutti sono liberi di agire liberamente. Venne prima di Rousseau, Lessing Condorcet e Kant, Shakespeare eppure sapeva già e meglio tutto quel che c’è da sapere sulla storia. Con la modernità, epoca prosaica, la tragedia diventa impossibile. Il dramma moderno si sviluppò in due direzioni contemporaneamente: drammi in cui i protagonisti sono borghesi in conflitto con tiranni e/o famiglia; drammi storici con protagonisti famosi. “Amleto”, “Re Lear”, “Otello” e “Macbeth” erano tragedie in quanto c’era lo scontro tra due mondi completamente diversi, il vecchio e il nuovo. Il conflitto che ricorre nel moderno stato del mondo, amore e tirannia, innocenza e vizio, libertà e dipendenza, avviene all’interno dello stesso mondo. L’opera che divenne modello del dramma e dell’opera borghesi fu l’“Emilia Galotti” di Lessing, grande amico di Diderot, appassionato difensore di Shakespeare, acerrimo nemico di tutte le regole aristoteliche. Racconta la storia di una ragazza facile preda del suo sovrano, e si conclude con il padre che uccide la figlia per salvarla, come lei gli chiede, dalla seduzione del sovrano. Tema e finale che ricorreranno, per esempio nel “Rigoletto” di Verdi. E già perché durante il Rinascimento la musica teatrale era diventata opera e la tragedia opera seria. E il destino delle donne diventa un tema dominante dei drammi futuri, insieme al binomio libertà e amore. Ora, se Antigone, Elettra, Ifigenia, Andromaca si battono per una tradizione o una causa ma non rappresentano in modo significativo il destino della donna, le donne dei drammi borghesi “soffrono e perdono perché non scelgono la loro sorte: un uomo lo fa per loro, e spesso contro di loro.” Sono le prime eroine della liberazione delle donne. “Non scrivo una storia della tragedia o del dramma, né mi interessa fare storia della filosofia; piuttosto, sono interessata alla loro interrelazione come manifestazioni dello spirito dei loro tempi”: così avverte la Heller, così mi permetto un salto di secoli e seguo il fil rouge delle donne. Tralascio l’amato melodramma, l’amatissimo Mozart e il Romanticismo, lo storicismo e Kant ed Hegel ma quest’ultimo, che la Heller riabilita in pieno a spese di Marx, resterà, con la sua profezia di fine della storia e quindi anche della filosofia, della religione e dell’arte, fino alla fine. Rivado a Ibsen. “Come diceva Aristotele, i personaggi tragici sono in una posizione superiore alla nostra, e la loro sofferenza ha un effetto catartico soprattutto quando il loro destino si trasforma da gloria a devastazione, a causa di un loro errore fatale.”

Gli eroi di Ibsen – sulla scia di quella “volontà di tragedia” che a un tratto animò la scena -, sono persone comuni “con radicato nell’animo il desiderio di essere grandi e persino tragici”. E se Nora di “Casa di bambola” è l’unico personaggio principale femminile di Ibsen che si ribella e si libera in vita e non in morte e si emancipa – interpretando una situazione che sarà centrale nell’esistenzialismo del XX secolo, quello sartriano ma soprattutto di Simone De Beauvoir, cioè che è lo sguardo degli uomini a creare le donne -, Hedda Gabler, al contrario sogna la corona d’alloro sul capo del suo uomo: aiutarlo a diventare famoso per rilucere di splendore riflesso. Tra marito e amico d’infanzia, Hedda si ritrova tra uomini che non sono né geni né grandi nemmeno da morti. Perde, la povera Gabler, la sua scommessa e si espone al ricatto e alla solitudine: è lei che si suicida, è lei l’uomo.

“L’ultimo sfavillio significativo del dramma europeo nel XX secolo nacque probabilmente da riflessioni su un’epoca percepita come assurda”: dall’inizio-fine, alla fine-fine: siamo giunti a Samuel Beckett. I suoi drammi, le tragicommedie, Agnes Heller li dice quasi nudi, privi come sono di appigli storici e temporali. “Assurdi”, dato il carattere onirico della trama: assomigliano a incubi, incubi comici e/o tragici. “I drammi di Beckett sono gli ultimi grandi esempi del genere letterario nato con le tragedie ateniesi”: li animano personaggi simbolici, astrazioni. Nell – il mio secondo personaggio ché il primo fu Irina e non me ne voglia il povero Cechov se l’ho saltato a piè pari –, in una domanda al vecchio marito Nagg, “Perché questa commedia tutti i santi giorni?”, esprime la domanda che sottende il tutto. In “Fin de Partie”, Beckett sega le gambe alla speranza di durata oltre la morte: ogni volta che moriamo, il mondo intero muore con noi. Tragicommedia questo Finale, ma la risata, è risata non metabolizzata, si ride, ma è un riso che non riscatta.     

 

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