Parlare bene è pensare bene, prova ne sia che ci sono parole che fanno ammalare e altre che fanno guarire.
Se siete stanchi delle parole
urlate e sgangherate, del vituperio e del vilipendio, in libreria c’è un
balsamo, un volume militante che si propone di fare quello che dice e dice di
voler ridare spessore al parlare, “proponendo di parlare meno e alternando un
silenzio riflessivo”.
Ecologia della parola è un
altro di quei libri che sarebbe auspicabile leggessero tutti, o perlomeno
chiunque voglia divenire cittadina o cittadino libero e autorevole del mondo.
Lo ha scritto Anna Lisa Tota
sociologa dalla penna piena di grazia che le consente di svolgere la
complessità semplicemente, ché mira ad essere compresa da tutti. E in pieno
raggiunge la meta avvicendando conoscenza ed esperienza, riuscendo a scrivere
di concetti non semplici e vita vissuta.
A partire dall’evidenza che noi
siamo le parole che ascoltiamo e diciamo, senza tralasciare in pagine
bellissime il linguaggio del corpo e dello spazio, l’autrice destina il suo
lavoro a chi nell’infanzia ha ascoltato parole non adeguate: una sorta di
restituzione.
Ché le parole possono essere
pietre e ferire profondamente chi le ascolta, e benché il senso comune voglia
che parlare sia scambiare contenuti verbali, è vero e sarà capitato anche a voi
di accusare un peso allo stomaco o al cuore dopo una certa conversazione. È che
quando parliamo e ascoltiamo, “costruiamo letteralmente mondi” e lo facciamo
mettendoci in gioco e con una buona dose di coraggio. Sì, coraggio, perché c’è
da assumersi la responsabilità del fraintendimento, dell’importanza di corpo e
mimica, e così equipaggiati far fronte a chi sostiene che le parole non
contino, contano le azioni. La verità è che le parole sono azioni di natura
diversa, veri e propri atti performativi.
Ecco allora, tornando al peso
sullo stomaco, l’importanza delle emozioni, di loro natura appiccicose come la
colla, perché sono flussi energetici come le onde del mare e se di buon mattino
il nostro vicino di casa decide di sfogare su noi la sua rabbia repressa, noi
non possiamo ignorarlo, ma possiamo costatare che la rabbia è tutta sua e non
necessariamente nostra e, di conseguenza, decidere cosa vogliamo farne.
È che quando parliamo con una
persona, incontriamo i suoi problemi, le sue ferite, e per vederli dobbiamo
esercitarci ad ascoltare, il che viene più facile se non siamo fagocitati dalle
nostre ferite. Insomma, attenzione e vigilanza – oltre a una pronta fuga –,
possono permetterci di uscire indenni da un attacco verbale: “Difendersi dalle
male parole può coincidere con lo schivare i colpi, minimizzando i danni per il
nostro interlocutore e per noi stessi.”
Già, divenire adulti è scegliere
come parlare. Vuol dire liberarsi da parole ascoltate nell’infanzia “che
rivestono pensieri e credenze alle quali abbiamo aderito in un’età in cui non
si poteva dire di no.” Vuol dire affrancarsi, avere una propria opinione e
svincolarsi da flussi di parole che ci attraversano senza il nostro permesso,
parole che possono indurci pensieri razzisti, sessisti e stereotipi. “Si tratta
di percorrere nuovi sentieri ed esercitarsi ad essere più intelligenti, a
essere uno che cammina da solo.”
Libro militante con una mirabile
frase d’ordine: io ti perdono sono le parole più rivoluzionarie che
potremo mai pronunciare; “Rudolf Steiner riteneva che l’atto del perdono fosse
una premonizione, cioè che colui che perdona fosse in grado di vedere la
compensazione e restituzione del danno subito nelle vite future, rendendolo
così non più necessario. Nella prospettiva antroposofica il perdono è un’azione
che interviene cambiando letteralmente il corso del karma.” Perdonare cambia il
destino di chi perdona e di chi è perdonato e le parole io ti perdono fanno
guarire da traumi, violenze e abusi. Di fatto, quando si subisce un trauma, il
presente si congela e il tempo del trauma è l’unico possibile e finché non si
perdona il passato non può andarsene e continua a incombere sul presente.
Libro militante e a farci caso
la parola più ricorrente è “interconnesso”: da tutto l’esistente a corpo e
mente, è alla circolarità del tempo più che alla linearità che guarda
l’autrice. Una circolarità in cui perdiamo un senso d’identità farraginoso per
darci a ciò che realmente siamo, divenire.
Dall’io quantico al passato
sostenibile, sono innumeri le teorie che Anna Lisa Tota ci fa attraversare
finanche all’importanza del silenzio come mantello magico delle parole ché le
esalta e ne permea l’ambiente. Si pensi a un attore che solo in scena deve
attaccare a dire, magari il monologo di Amleto: fateci caso, è con il silenzio,
facendocelo sentire, che andrà a iniziare. E sulla metafora del teatro c’è da
non dimenticare la prossemica, invenzione- scoperta di Edward Hall che comprese
quanto lo spazio parli, anzi racconti “a chi lo attraversa le relazioni sociali
che legano gli individui.”
E con un filo d’oro, l’autrice
riesce a legare le tragedie dell’infanzia al genius loci, in una conversazione
– sottotitolo del libro è Il piacere della conversazione –, che sa di
civiltà, una civiltà che ricorda quella d’antan, quando le parole “conservavano
ben altro statuto di rilevanza, ben altra dignità. Erano altri tempi, certo, ma
forse ci siamo persi qualcosa.”
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