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Classificare, separare, escludere

 


Sarà stato il 1969 o il 1970, insomma avevo cinque o sei anni e gli adulti mi dicevano: stai attenta agli zingari, rapiscono bambini come te e li usano in strada per chiedere l’elemosina. La riscrittura della Storia: la verità vera è che nella Germania nazista i bambini zingari vennero spesso usati come cavie dagli scienziati dell’eugenetica, per lo studio delle presunte basi genetiche della criminalità.

La sottrazione dei figli è stata una delle forme di sterminio messe in atto contro questo popolo, figli che nell’Austria e nella Svizzera del Settecento venivano strappati alle famiglie per essere affidati a contadini bisognosi di manodopera, o ai preti, perché dessero loro un’educazione cristiana. Furono cinquecentomila gli zingari che persero la vita nei lager nazisti, ma sembra che nessuno li voglia ricordare. Anche se a Roma, al rione Monti, c’è Via degli Zingari dove una targa dedicata a Rom Sinti e Camminanti, ricorda quello sterminio. In Classificare, separare, escludere edito da Einaudi nella collana I Maverick, Marco Aime, docente di antropologia culturale all’Università di Genova, affronta razzismi e identità andando dalle origini all’oggi. Oggi che due posizioni spaccano l’Europa: “da un lato le destre sovraniste in crescita con la loro chiusura ad ogni elemento esterno richiamandosi al primato dell’autoctonia con tendenze razziste; dall’altro i gruppi di sinistra propensi a pensare un continente multietnico, vissuto da diverse realtà culturali integrate tra di loro.” Diviso in tre capitoli – L’invenzione delle razze; Dalla razza all’identità; I volti nuovi del razzismo – il libro, dedicato a chi verrà dopo, libro che l’autore si augura divenga un giorno inutile, è particolarmente interessante nell’analisi dell’oggi. Premesso che gli studi sul Dna hanno rilevato che “siamo molto più diversi al nostro interno di quanto lo siamo rispetto a quelli che consideriamo diversi da noi, estranei”, ne consegue l’impossibilità di classificare l’umanità sulla base di differenze biologiche significative. Il che fa parlare Aime di “grande equivoco” in merito alla razza, equivoco sorto per un’errata interpretazione della teoria darwiniana. Ma anche se la genetica afferma l’inesistenza delle razze, noi non è tanto sui fatti che ci orientiamo e agiamo, bensì grazie alla percezione. E si sa, la percezione è soggettiva e fortemente influenzabile. “Oggi il razzismo non si presenta sotto la forma di un’ideologia esplicita e definita, espressa in tesi facilmente condannabili. Il nuovo razzismo si è riformulato sul piano della differenza culturale, e aggirando il vecchio biologismo, opera con o senza riferimento alla razza, ma usa lo stesso atteggiamento rispetto alle differenze, per svalorizzare l’altro.” C’è da chiedersi come sia possibile che dopo la tragedia e l’orrore della Shoah si sia tornati a cotante pulsioni razziste: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo”, ammoniva Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Più che guardare allo spirito della storia hegeliano, sarebbe da rimettersi a studiare e sudare sui libri del Vico. È che se l’epoca del razzismo fino a non molti anni fa sembrava lontana, “quella dei pregiudizi non si era mai sopita”.

Così non era raro negli anni Sessanta leggere per le vie di Milano o Torino cartelli con su scritto “Non si affitta a meridionali”, immigrati del Sud che venivano chiamati terroni, napuli, in senso spregiativo. E se il boom economico allora non scatenò nessuna competizione per il lavoro che abbondava, oggi le cose stanno altrimenti.

Bisogna risalire al 1989, al crollo del Muro di Berlino, alla fine delle “grandi narrazioni” novecentesche basate sulle ideologie, per segnare la scomparsa della politica come eravamo abituati a intenderla: “il sistema di mercato si impone in tutta l’Europa e in gran parte del pianeta. Da un mondo bipolare si è passati a un mondo il cui unico credo si traduce nel liberalismo di mercato e in un sempre più esclusivo individualismo. Se prima la distinzione tra destra e sinistra funzionava come universale ordinatore della realtà, ora il modello mercantile confonde, o meglio, camuffa, le differenze, costruendo la sua egemonia globale.” Curioso, se non preoccupante, che a chi gongola per la fine delle ideologie, sfugga che da allora a oggi a dominare il mondo è l’ideologia neoliberista. E mentre il neoliberismo garantisce la libera circolazione delle merci, ma non delle persone, l’impoverimento di nazione e classe, ha fatto emergere il tema identitario, e a poco a poco “un vento nuovo ha iniziato a soffiare sulle ceneri del vecchio razzismo”. Un vento foriero di una parola divenuta rapidamente bandiera delle politiche postmoderne [perché «postmoderne»?]: identità. Che si traduce in un’inferiorizzazione o demonizzazione dell’Altro, dinamiche scaturite dalla “volontà di esaltare il Noi e allo stesso tempo creatrici di quel Noi”. Per identità, scrive Aime, s’intende “essere quello che non è un altro”: grazie a un’opposizione negativa, ci riconosciamo come noi perché siamo diversi da loro. Ma se dire io – come scriveva la Weil – è nauseabondo, dire noi lo è di più. E se “finzione” è l’identità – nient’altro che un espediente ideologico per contrastare la fluidità del divenire -, è anche vero che da un lato tarpa la molteplicità, e dall’altro elimina le somiglianze e le ricche differenze su cui si fonda la cultura della convivenza. Un’arte del convivere estranea a chi brandisce il Noi come un’arma, un’arma che per essere più tagliente, necessita di un Loro altrettanto caratterizzato. “Lo stereotipo assurge così a metodo classificatorio, elementare, immediato, adatto a una comunicazione semplice e rapida come quella che veicola la politica odierna attraverso i social.” Giocando la carta del “marketing della paura”, per cui migrante equivale a criminale, grazie a una martellante campagna contro gli stranieri, si è creato un nuovo capro espiatorio su cui scaricare le tensioni sociali. Non siamo più all’epoca dei baby boomers, oggi il lavoro latita anche grazie alla delocalizzazione, e la frase più comune è “Ci rubano il lavoro”, come comune – nonostante i dati, i numeri dicano altro -, è l’opinione che tutti i migranti siano illegali, solo perché chi parla “alla pancia” delle persone ridotte a “gente”, assegna identità e colpe collettive, per cui i musulmani sono tutti terroristi, gli africani indolenti, rumeni e albanesi violenti, e i miei amati rom, ladri. E anche se avremmo tanti panni sporchi da lavare in piazza, è “meglio pensare che il pericolo venga dall’altro, dal diverso, in modo che le pulsioni negative vengano incanalate verso l’esterno. Così possiamo immaginare un Noi buono e un Loro cattivo. Se vedi nell’altro un nemico, la sua eliminazione diventa una sorta di legittima difesa. Ci si sente a posto con la coscienza, perché attorno molti la pensano così.”

Ci si fa forti della propria ignoranza, del “Me ne frego” diffuso, primo precetto fascista, e poi ci si ritrova davanti a quella dichiarazione di guerra che è il non-manifesto di un nuovo movimento “Generation identitaire” sorto in Francia nel 2012 e che tante simpatie ha raccolto in Germania, Austria e Italia. Fa paura: lo si trova a pagina 185 di questo libro necessario ma che nel ventunesimo secolo non avremmo mai voluto leggere. Eppure la politica dello struzzo non conviene, tutt’al più possiamo unirci alla speranza di Marco Aime, che un giorno, al più presto, divenga un libro inutile.

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