In vita sua – nacque nel 1901 vicino Padova, morì a Roma nel 1983 -, Andrea Emo, discendente di dogi, filosofo allievo di Giovanni Gentile, ma presto libero da sistemi e influenze, non pubblicò neanche una riga. Eppure per tutta la vita non fece che scrivere. All’indomani della sua scomparsa, furono trovati quasi quattrocento quaderni, scritti fitti fitti in una calligrafia regolare e con pochissime correzioni.
“Che cosa possiamo pubblicare se
non ciò che è privato e intimo, cioè più universale, perché proprio a ciascuno,
che gli universali astratti? Ma come pubblicare ciò che è sacro e bello finché
resta privato e occulto, e diviene osceno, come ogni nudità, non appena si
manifesta? Come evitare questa metamorfosi del medesimo, come salvare la
castità di ciò che è intimo e privato e appunto perciò vuole conoscersi, cioè
esprimersi, divenire altro (cioè pubblico e formale) restando se stesso? Qual è
il miracolo di una forma che è trasformazione?”
Così si domandava il filosofo
nobile veneziano nel Quaderno 256 scritto nel 1963, stesso Quaderno nel quale
continuava a chiedere: “Ma come possiamo fare a meno del pubblico, cioè
dell’universale? (…) Come può il privato diventare pubblico restando privato,
intimo, singolo?” E nello stesso pensiero accennava e trovava la risposta: “In
realtà la sola universalità è quella del singolo e dell’individuo. Non esiste
un’universalità in sé che non sia individuale; un pubblico non sarà mai
universale; il pubblico, il popolo deve diventare nazione, cioè individualità
per trovare un’universalità (l’universale, l’eterno, è anche nella relatività
del tempo); oppure cercarla nelle grandi individualità singole.” In questo
frammento, a quarant’anni di distanza, c’è la maturità di un pensiero che si
trova nel Quaderno numero 4 del 1927: “Il carattere degli uomini veri è
continuamente diverso, a differenza del carattere delle marionette o maschere
che è perpetuamente uguale a se stesso.”
Nel frattempo, in quei
quarant’anni, c’è stata la scoperta di Simone Weil, scoperta recata come dono
da una delle poche ma superbe amicizie, Cristina Campo. La Weil, soprannominata
da Bataille la “vergine rossa”, sui Quaderni annotava che una moltitudine non è
in grado di fare un’addizione. A lei, la Campo, pseudonimo di Vittoria
Guerrini, prestò tempo e studio appassionato, tanto che a pochi giorni dalla
fine – morte vissuta non certo da galantuomo dal suo compagno Elemire Zolla,
nelle stanze all’Aventino –, in una rarissima intervista, alla cronista che non
senza patema chiedeva, era il 1977, dove e come dirigere ed educare il
collettivo, con eleganza rispondeva che la speranza era solo nel lavorìo fra sé
e sé. Scarnificazione che prevede un’assoluta libertà: la stessa che per Andrea
Emo era il sine qua non dello scrivere, pensare e comporre.
Se dunque gli “uomini veri” sono
continuamente diversi, mentre i fantocci sono identici a se stessi, a questi
ultimi concerne la coerenza dei cretini, mentre a chi cambia in carne e mente,
la fatica da Sisifo della metamorfosi, il nostro continuo divenire. E come
Camus esortava a immaginare Sisifo felice, così vien da immaginare il filosofo
Emo, ogni giorno allo scrittoio, nel compito bello e inutile di rinvenire la
spiegazione di tutto, se non felice, “Io meritavo forse un destino che non
fosse un destino di silenzio”, alacre e in pace sì: “Non so se la vita valga la
pena di essere vissuta: certo, vale la pena di essere compresa”
Possiedo, di questo appartato
filosofo del Novecento migliore (“Uno scrittore è tanto più grande e tanto più
interessante, quanto maggiore è il suo coraggio di confessare quello che egli è
veramente, di confessare la vera natura e qualità del suo carattere. La maggior
parte delle persone parla e scrive per nascondersi: lo scrittore dovrebbe
essere quell’uomo di eccezione che scrive per manifestarsi, per mettere le cose
a posto e dire effettivamente quale è la realtà. Solo chi è sincero, chi ha il
coraggio di manifestare quello che egli è (o quello che gli altri, o le cose
sono), può sperare che altri si riconosca in lui.”) la prima edizione di una
raccolta di suoi aforismi e pensieri brevi pubblicato da Gallucci nel 2013. Una
raccolta dedicata alla scrittura che Andrea Emo viveva giorno per giorno,
raccolta avviata da Massimo Donà e Romano Gasparotti, guidati prima da Cacciari
e poi dal caro Giorello. La voce incomparabile del silenzio è il titolo di
questa silloge che, come avverte Donà in terza di copertina, consta di pagine
da distillare con parsimonia.
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