C’è un
volumetto in libreria che resiste sugli scaffali da un bel po’. E’ Il libro
del potere, raccoglie tre saggi di Simone Weil, figura da molti ritenuta
contraddittoria – come se il pensiero in sé non lo fosse -, in verità animata
da un radicalismo che permeò tutta la sua breve vita.
In
trentaquattro anni – nasce a Parigi nel 1909, muore sola a Londra nel 1943 -,
dacché comprese che ciascuno era in sé unico e ricco di potenzialità,
convinzione cui approdò abbastanza presto, non smise mai di lottare al fianco
di chi, povero, combatteva per ottenere dignità e giustizia.
I tre
saggi qui raccolti dall’editore Chiarelettere, sono stati scritti alla fine
degli anni Trenta inizi Quaranta del secolo scorso.
Il
primo, L’Iliade o il poema della forza Weil iniziò a scriverlo nel 1937
ma lo completò più tardi e fu pubblicato con lo pseudonimo di Emil Novis sui
Cahiers du Sud nel 1941.
Anni
Trenta Quaranta del Novecento: totalitarismi e industrializzazione sfigurano il
mondo, lei, legge e rilegge testi antichi, e li scopre vicinissimi. “La forza
riduce l’uomo a cosa”: la forza è tale che in Omero chi le soggiace ne resta
travolto. Eppure non c’è eroe nel poema che fonda la nostra civiltà, a non
sentirsi nel giusto e pertanto legittimato a imporre la propria volontà. Così
Agamennone, Achille, Patroclo ed Ettore: la forza, dice Weil, illude di essere posseduta ma alla fine
vincitori e vinti si assomigliano. Vicinissima Iliade ancor’oggi, quando
ascoltare la lezione di Omero richiede di mettersi in discussione in
un’introspezione che non si fa senza coraggio. Controcorrente la lettura di
Simone, contro soprattutto quei filologi tedeschi che agitavano il poema
omerico come inno alla guerra e per sancire che gli ariani erano eredi degli
achei.
Non
ricominciamo la guerra di Troia è il secondo saggio della
raccolta, comparso nel 1937 nei Noveaux Cahiers, saggio dichiarazione di
pacifismo, ma a modo suo, lontana da slogan triti e ritriti o derivati da
opposizioni manichee. “Le parole che hanno un senso e un contenuto non sono
parole assassine”: a partire dal riconoscere la propria epoca come malata di
decadimento intellettuale, Weil, da intellettuale, glissa la violenza con la
cura delle parole. Mette in guardia dalle parole con l’iniziale maiuscola o
terminanti in -ismo, fra tutti i conflitti umani, salva solo la lotta di classe
per trovarsi alla fine e con onestà, in un vicolo cieco dal quale “l’umanità
sembra che non possa uscire se non grazie a un miracolo. Ma la vita umana è
fatta di miracoli.” E un miracolo di lucidità e di pensiero alto e d’amore è
l’ultimo saggio del libro L’ispirazione occitana: quanto è vero oggi,
pensare che per secoli abbiamo fondato le nostre vite sull’idea di progresso,
un’idea, allora come ora, infondata. A lungo Weil pensò di dover scrivere la
storia mai scritta della verità, quel filo d’oro che cuciva tutte le culture e
in questo breve saggio ne dà prova. Dalla Grecia all’Occitania, si ritorna alla
forza, ma mutata di segno: “L’essenza dell’ispirazione occitana, è identica a
quella greca. Consiste nella conoscenza della forza”. Ma conoscerla significa
riconoscerla sovrana del mondo e rifiutarla con disgusto e disprezzo.
Rifiuto
della forza che coincide con l’amore che pervade finanche la vita pubblica
occitana, all’insegna dell’amore per la libertà e per l’obbedienza, binomio che
Weil associa all’armonia pitagorica all’interno della società.
Sì,
eravamo in un vicolo cieco, ma la potenza di Simone Weil di trasportare in una
dimensione che è unione degli opposti, scevra da qualsiasi forzatura, è nota.
Custode di un’armonia perduta, rimase, per dirla con Brecht, senza partito per
tutta la vita, alla quale però prese parte fino in fondo.
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