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La voce delle sirene

 


La prima cosa che ho fatto avendo tra le mani un libro dal sottotitolo accattivante assai – I Greci e l’arte della persuasione – è stato scorrere l’indice dei nomi: niente, Michelstaedter non c’è.

Forse l’autrice del libro La voce delle sirene, Laura Pepe, avrà pensato bene che la persuasione intesa come ben parlare ben ragionando per il bene comune, poco o nulla sfiorasse l’accezione del filosofo goriziano celebre postumo per la sua tesi di laurea La persuasione e la rettorica.

Anche se a ben vedere nel Preludio l’autrice vi accenna, alla Retorica… Ma torniamo alla persuasione, a peitho, che include seduzione quale forma di persuasione preesistente alla parola –, e arte del convincere, e a quest’unica divinità Peitho’, attende questo libro godibilissimo di un’autrice che sempre con Laterza pubblicò nel 2018 un altro libro altrettanto frizzante: Gli eroi bevono vino. Il mondo antico in un bicchiere.

Qui – dopo aver evocato Ulisse stretto all’albero maestro mentre i compagni remano con le orecchie piene di cera per non sentire il canto micidiale delle sirene –, lo spazio si riduce alla sola Atene “realtà straordinaria unica ed eccezionale”. Al centro della città-stato, l’agorà, la pubblica piazza, vuota di edifici, da riempire con la presenza e le parole. Al centro, il logos, e come sempre alla prova della realtà, dar fiducia al vero, si tramuterà in adesione al verosimile.

Dalla visione omerica di seduzione tutta femminile, concentrata negli “occhi di cagna” kynopis, di quella che Eschilo definì una terribile rovina, la femme fatale del mito greco, Elena; alla visione ateniese, trista assai per le donne. Basti pensare alla mise che doveva trasformare la sposa greca: rasata a zero per la prima notte di nozze, indosso uno straccio a coprire i seni ché all’epoca era inconcepibile innamorarsi di una donna. Segregate, senza istruzione, sposate solo per generare figli, le donne, insieme a schiavi e stranieri non avevano diritto di voto.

Se nell’immaginario collettivo Atene è la culla della democrazia, l’autrice non si perita di sfatare chissà quali miti di equilibrio e ponderatezza. Democrazia diretta per tutti i cittadini – democrazia molto diversa dalla nostra “rappresentativa” la cui unica decisione di tutti è scegliere chi prende le decisioni –, cioè parrhesìa, libertà di parola durante l’assemblea che si riuniva quaranta volte l’anno sul colle Pnice: in seimila si radunavano non senza tracciamenti ante litteram e incentivi in oboli tre. Ma quei seimila uomini come ottenevano parrhesìa, cioè libertà di parola, dall’assemblea? Laura Pepe si sostiene con la forza dell’ars comica, ché per far ridere basta ipertrofizzare la realtà: Acarnesi di Aristofane, è la fonte cui dissetare la nostra sete di conoscenza. L’incipit di questa commedia del 425 a. C. vede un cittadino contadino, Diceopoli, meditare la strategia giusta per ottenere parrhesìa dall’assemblea, disvelando quale era l’unico diritto di tutti: “l’urlo, l’insulto, l’interruzione violenta della parola altrui, della parola di coloro che dominavano quello strumento, gli abituali protagonisti della tribuna.” Ecco come ci si guadagnava la possibilità di perorare la causa, quindi persuadere della sua bontà per il bene comune e non per il proprio tornaconto. Ma c’è una differenza abissale fra le parole di un kalòs kai agathos, uomo bello e giusto, e quelle di un sofista dei peggiori. Fra i migliori, Protagora, cui va il merito di aver allargato il discorso introducendo la verità di ciascuno nella ricerca della monolitica verità. I Greci, la verità vera la chiamavano aletheia, con alfa privativo, quindi un “non” davanti una parola che deriva dal verbo lanthano che significa nascondere, dimenticare: la verità vera è “cio che non è nascosto”. A custodia della preziosa verità, le Muse, figlie di Mnemosyne, la Memoria. E qui riporta Laura Pepe, il pensiero di Martin Heidegger che mise in luce quella negazione dell’alfa privativo rispetto alla solarità di una parola come la latina veritas, per dire come la graniticità della veritas implichi una dimensione statica mentre l’aletheia greca una dinamicità che si esprime con il togliere il velo, movimento continuo del disvelamento. Ultima meta della filosofia, aletheia si nasconde o è nascosta. Come dietro Pericle si nascondeva Aspasia, come dietro un grande uomo c’è sempre una donna. Pare sia suo di lei e non di lui, l’epitafio a un anno dall’inizio della guerra del Peloponneso, tra Atene e Sparta, era l’inverno dello scontento quel 431 a.C.: si vociferava fosse di Aspasia quel parlare a tutti che commosse e convinse. Si vociferava pure lei fosse troppo abile, colta, indipendente, spregiudicata e saggia, le intentarono un processo, per favoreggiamento della prostituzione: la macchina del fango esisteva anche allora. La morte di Socrate ne è un esempio.

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