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Transito


C’è chi dice, chi scrive legge, chi legge scrive: “Io non ne capisco niente, e quello non è il mio mondo. Ma una cosa la so: l’uomo che aveva scritto quelle pagine era un maestro della sua arte. Mi scordai della noia mortale. E se avessi avuto ferite mortali, leggendo me ne sarei scordato ugualmente. Mi pareva di essere di nuovo con la mia famiglia. M’imbattei in parole che aveva usato la mia povera madre per calmarmi quando diventavo violento e crudele, in parole con cui mi sgridava quando mentivo o mi azzuffavo. M’imbattei in parole che avevo adoperato io stesso per poi dimenticarmele perché non avevo più provato i sentimenti che le avevano suscitate. E c’erano pure parole nuove che da allora qualche volta utilizzo ancora.”
Mai libro fu assimilato con tanta familiare avidità come quello in cui s’imbatte l’io narrante di Transito di Anna Seghers. Un libro nel libro, esempio memorabile di come la lettura sia capace di trasportare in altre dimensioni, addirittura far dimenticare i propri guai. Lettura, elisir di tante vite.
Scritto in prima persona, il libro – amato da Heinrich Boll e Christa Wolf quale capolavoro – è un libro vortice che dà vertigini: vortice da maestrale potente che spazza Marsiglia dove è ambientato nel 1940, vento che trasporta da un consolato all’altro la massa di profughi in un altro vortice, alimentato da chi è tutto preso dall’organizzazione della propria fuga.
Profughi ossessionati da un’idea sola, ottenere a tutti i costi quel timbro sul passaporto che si chiama “visto di transito”, vademecum per passare in un Paese che si deve attraversare per raggiungere l’agognata meta. Un’idea fissa che dà vertigini, permeando l’esistenza di chi non ha patria: prigionieri evasi dai campi di concentramento, ebrei sfiniti, membri della Legione straniera, spagnoli perseguitati. Una massa che ricorda il coro della tragedia, tragedia che stando alle parole della Seghers – in appendice al romanzo riflessioni altrettanto potenti dell’autrice -, la storia d’amore che scorre parallela alla storia di chi non ha terra, trova spunto nell’Andromaca di Racine, dove due uomini aspirano al cuore di una donna che ne ama un terzo, il quale è morto.
Uno dei due è la voce narrante, un ragazzo intrepido e sveglio, qualità che ben presto lo aiutano a ottenere l’agognato timbro di cui però non si servirà, in un finale aperto che spetta al lettore chiudere. Un uomo non ipocrita, consapevole dei propri limiti, comunque capace di idiosincrasia per le ideologie, uno che odia i nazisti. E ama Heinz, compagno di campo che ha perso una gamba nelle Brigate internazionali in Spagna, personaggio pieno di forza di volontà, che grazie all’aiuto degli altri da lui aiutati, riesce a varcare fiumi e superare muri di prigioni.
Definito dalla “New York Times Book Review” come “la perfetta anatomia della mente di un profugo”, Transito fu scritto di getto, iniziato in stanze d’albergo e caffè di Marsiglia, portato avanti sui Pirenei e poi sulla nave che da Marsiglia faceva rotta per la Martinica dove la scrittrice trovò riparo dalle persecuzioni naziste. Anna Seghers – prima donna a capo dell’Unione scrittori nella DDR –, riuscì a superare quelle settimane terribili scrivendo in continuazione, tanto da suscitare la sorpresa dei compagni di viaggio. 
Transito torna in libreria nella limpida traduzione per L’orma di Eusebio Trabucchi, la prima basata sul nuovo testo originale così come dalla recente edizione critica delle opere dell’autrice. La quale, nella prefazione all’edizione ceca, dei profughi scrive che è nostro dovere cercare di comprendere gli stati d’animo e le prospettive di chi – non solo chi fuggiva dalla Francia occupata da Hitler ma chiunque sia senza patria né meta - ha l’esistenza invasa dalla necessità di ottenere un permesso di soggiorno: parole tanto più profetiche in quanto scritte nel 1950. 



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