Vent’anni fa assistetti al ritorno a teatro dopo trent’anni di Alejandro Jodorowskij che approdò insieme a tutta la famiglia nell’isola dei Sardi con “Opera panica”.
In quella pièce di tante pièce a un tratto andò in scena l’essenza dell’evoluzione della nostra specie: su una fila di sedie fronte al pubblico, i figlioli Jodorowskij – Adan, Cristobal e Brontis –, mimavano il progredire: dall’uomo di Cromagnòn a fare con successo due più due. Fin lì tutto bene, si viveva in odor di felicità finché il troppo, come si dice, non storpiò. Non appena gli esemplari di uomo si diedero al pensiero, e poi al pensiero del pensiero del pensiero, cominciarono a dare segni di malessere e di profonda infelicità. C’è un limite a tutto, un limite oltre il quale il piacere si tramuta in dolore.
Lo seppe per primo il grande Epicuro che nella Lettera a Meneceo del III secolo a C, meglio nota come Lettera sulla Felicità, disse qualcosa di definitivo. Talmente immutabile e perciò lapalissiano, che la nostra Chiesa, erede dello stoicismo, non poté non oscurare, insabbiare e screditare. Fu così che cominciando da un contemporaneo di nome Timone passando per Agostino, Cicerone e alcuni illustri padri della Chiesa, Epicuro passò alla storia come il “porco”.
D’altronde il filosofo fu il
primo ad aver guardato all’essenza dell’uomo come animale mosso dal piacere, ma
per chi professava la vita come passaggio in una valle di lacrime snocciolando
virtù per assicurarsi la vita eterna, era da rimuovere. Rimozione forzata fino
al 1647, quando Gassendi lo riabilitò.
Potete trovare traccia della
riabilitazione di Epicuro, nel secondo volume di 727 pagine dedicato ai
moderni, scritto da Fulvia de Luise e Giuseppe Farinetti, per i tipi di
Einaudi, dal titolo accattivante: I filosofi parlano di felicità. Ne
parlano e ricercano una felicità da vivere, non solo da procrastinare
nell’aldilà, quasi che Gassendi avesse stappato una bottiglia di spumante e
tutti, da Locke a Marx, brindassero all’emancipazione dall’ala di Santa Madre
Chiesa. La ricerca della felicità diventa alla portata di tutti, dacché è
possibile sottrarre piacere e dolore alla metafisica, dacché si distoglie lo
sguardo dalle verità indimostrate per rivolgerlo all’osservazione della natura
e del comportamento umano. Finalmente si può essere felici e liberi da un Dio
che premia e punisce. D’accordo, ci sarà chi nella natura vedrà ancora il volto
di Dio, ma l’azzardo prometeico si era ormai compiuto.
Gli autori di questi due poderosi
volumi, con ironia e una sfumatura di amarezza, nel ripercorrere le parole dei
filosofi ne pesano l’importanza dalla notte dei tempi a oggi. E ben aveva
intravisto l’oggi Leibniz – oggi che si fatica a sapere bene chi si è –, ponendo
come base dell’agire umano il disagio, sintomo di un’inquietudine profonda che
ci accompagna in questa “specie di corsa che finisce solo quando il cuore cessa
di battere.”
Mentre si ragiona sulla vita,
quella se ne corre via: scriveva lo scozzese David Hume nel 1742, a lui si deve
l’accento sulla simpatia e sul desiderio di essere approvati, un amore per la
lode che il suo amico e filosofo morale Adam Smith equilibrò suggerendo di non
dipendere da ciò che gli altri pensano e a rincarar la dose aggiunse che c’è da
sottrarsi alle lodi se non se ne è degni. Un secolo dopo, i lumi e la Francia
risplende di quella che da Gassendi in poi è la “naturale” inclinazione al
piacere e alla felicità: felicità per chi? Un posto nei salotti della società
della conversazione, salotti aristocratici, un borghese doveva sudarlo, e
comunque era sempre e solo tollerato.
Anche allora, l’ascensore sociale era fuori servizio e a “bonheur” voce dell’Encyclopédie di d’Alembert e Diderot, l’abate Pestré sintetizzò così la smania francese – a ben vedere, della gente di mondo e basta –, d’indagare la felicità: “Tutti gli uomini concordano nel desiderio di essere felici. La natura ha fatto della nostra felicità personale una legge valida per tutti noi. Tutto ciò che non è felicità ci è estraneo: essa soltanto ha un marcato potere sul nostro cuore, vi siamo tutti trascinati da una ripida china, da un incantesimo possente, da un’attrazione irresistibile; è un’impressione incancellabile della natura, che l’ha incisa nei nostri cuori, ne è il fascino e la perfezione.”
La natura, cioè Dio, avrebbe inciso nel nostro cuore il desiderio di felicità, e tutto quel che non lo è, è estraneo: en passant mi conforta il ricordo in periodi neri d’aver pensato come Natalia Ginzburg fece pensare un personaggio di Tutti i nostri ieri: Non si vive per essere felici, ma per vivere quel che c’è da vivere.
Ma l’idea della felicità entra
in crisi molto prima, già a metà Ottocento. Fino a Marx, che rifiuta quale
inattuale l’idea di felicità, procrastinandola all’epoca postrivoluzionaria, quando
fuori dai meccanismi alienanti, si potrà essere felici e dedicarsi alla creatività.
Fino a Nietzsche, che si erge a
tutela dei forti e a detrimento di deboli e mediocri, contro le aberrazioni di
una concezione mortifera e repressiva come il cristianesimo.
Chiude i due volumi un’appendice
dedicata a Darwin, colui che ci fece ancora animali con uno sfuggente desiderio
di felicità.
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